In Madagascar non ci sono i grandi predatori, e questo comporta il proliferare di uno straordinario universo di piccoli animali che popolano questa terra dalla natura lussureggiante.
In Madagascar ci sono molte capanne col solo giaciglio e pochi televisori, e questo contribuisce alla nascita di molti, molti bambini.
Queste due osservazioni riassumono gli aspetti che maggiormente mi hanno colpito nell’impatto col Madagascar, un Paese che dona molte emozioni, ma quello che vi rimarrà impresso saranno le moltitudini di lemuri, camaleonti, gechi e soprattutto tanti sorrisi di frotte di bambini che vi saluteranno con la mano ad ogni attraversamento di villaggio.
I Malgasci e il Continente
Il Madagascar è la quarta isola più estesa al mondo, protesa a sud-est dell’Africa tra l’Oceano Indiano e il Canale del Mozambico, ed è contornata da molte isole minori, alcune delle quali per niente piccole.
Similmente a quando un sardo si riferisce alla penisola italiana con un senso di ancestrale lontananza come al “continente”, un abitante di Nosy Be vi parlerà del Madagascar come delle “Grande Terra”, e un abitante della Grande Terra vi parlerà dell’Africa come un incidente di collocazione geografica, un gigante molto remoto e poco affine, perchè il Madagascar è solo Madagascar, e non si possono trovare similitudini.
Si pensa all’Africa come culla del genere umano, ma la presenza dell’uomo in Madagascar è molto recente, perchè questa terra si staccò dal continente africano 140 milioni di anni fa, prima dell’evoluzione dell’uomo, e qui non vi sono testimonianze preistoriche.
I primi abitanti furono colonizzatori arrivati probabilmente nel VI secolo d.C:, un popolo che è rimasto nei miti locali come di bassa statura e quindi forse popolazioni africane di pigmei, ma la prima testimonianza storica è la presenza di naviganti malesi e indonesiani che giunsero qui su delle semplici piroghe a bilancere, non dissimili dalle imbarcazioni tradizionali che ancora usano i pescatori malgasci, ma con due stabilizzatori; le acque del Madagascar poi sono così tranquille che uno dei due stabilizzatori fu eliminato.
Poi arrivarono dall’Africa i bantu, e poi gli arabi che giunsero fin qui a commerciare, quindi ancora i portoghesi, e infine i francesi: un crogiuolo di razze e culture che ancora oggi si può distinguere dalle fisionomie molto diverse che caratterizzano le diciotto tribù ad oggi esistenti; alcuni hanno tratti nettamente africani, altri sembrano quasi asiatici.
L’aeroporto di Nosy Be e lo stile malgascio “Mora mora”
Ci sono due aeroporti principali in Madagascar, uno nella capitale Antananarivo, che serve il sud ed il centro del Paese, ed uno a Nosy Be, che serve quest’isola ed il nord del Paese. Ci sono poi diversi altri aeroporti nazionali, ma i voli sono un terno al lotto, partono solo alcuni giorni a settimana ma anche in quei giorni decidono quando vogliono partire. Pur essendo ex colonia francese, Nosy Be e tutto il nord del Madagascar hanno un rapporto privilegiato con l’Italia perchè vi sono regolari voli diretti Neos sia da Roma (8 ore di volo) sia da Milano (10 ore).
Quando atterro a Nosy Be mi sento proiettata subito in un’altra dimensione. Iniziamo con i bagagli: dalla pista di atterraggio vengono depositati a mano ad uno ad uno con una lentezza sconcertante su un piccolo nastro che si riempie subito e così chi li deposita aspetta che si sia creato un buco dove mettere una nuova valigia, mentre un altro addetto li prende dal nastro e li riscarica per terra ma al centro del circuito del nastro, così chi riconosce un proprio bagaglio deve ulteriormente chiederlo all’uomo che lo rimette sul nastro.
Passiamo alle operazioni di frontiera: per prima cosa si fa la fila ad un banchetto dove si pagano 15 euro di tampone obbligatorio, quindi si passa ad un altro banco dove si rifa la fila, si pagano 35 euro per il visto e si compila un modulo, poi si va ad un altro banco dove controllano il passaporto e i poliziotti chiedono la mancia (in teoria vietatissimo!) e quindi si va dal capo poliziotto per la firma finale, con altra richiesta di mancia. Poi si esce e ci sarebbero da un lato, senza passaggio obbligato, gli stand dove fare il test covid pagato ma nessuno se li fila.
Il tutto con estrema calma, ed estrema disponibilità e gentilezza, “Mora mora” dicono i malgasci, cioè “piano piano”, che è un po’ un motto simbolo di uno stile di vita da queste parti, si trova sulle magliette e sui parei e viene applicato con impegno.
Del resto è la tecnologia che trasforma le nostre giornate in frenetiche, che bisogno c’è di correre quando si seguono i ritmi naturali scanditi dalla luce e dal buio?
Buche, buche e ancora buche
Il secondo esercizio di “Mora mora” è imposto dalla rete stradale malgascia. Il Madagascar non è molto più grande dell’Italia ma per percorrerlo nella sua lunghezza ci vuole una vita perchè sostanzialmente non esistono strade asfaltate.
O meglio, le strade sono state costruite ma poi non c’erano soldi per la manutenzione, e in un Paese dove le piogge della stagione estiva (cioè del nostro inverno) provocano allagamenti di vaste proporzioni, il disfacimento del manto stradale è stato molto rapido, e quindi l’asfalto presenta continue buche che impongono l’uso dei fuoristrada 4×4 e richiedono una certa tenuta di stomaco.
Di macchine normali non c’è traccia, e anche i fuoristrada non sono così frequenti, i malgasci si spostano a piedi, in bicicletta i più abbienti, con i ” taxi brousse” che sono pullmini collettivi stracolmi di gente e di pacchi sul tetto, e in città con i tuctuc gialli che costano meno di un euro.
la viabilità è quasi meglio dove l’asfalto non è mai stato posato, quando le strade sterrate si stendono su un terreno sabbioso e non pietroso.
Tuttavia in questo lentissimo ritmo degli spostamenti sta il bello. I paesaggi del Madagascar non sono mai uguali tra loro, c’è un’incredibile varietà di habitat, dalle coste di sabbie bianche o rocce, alle zone secche e semidesertiche, alle terre rosse, alle distese di baobab, ai verdi pascoli, alle piantagioni di riso di un verde brillantissimo, ai bananeti, alle coltivazioni di ylang ylang, ai boschi di palme, agli tsingy rossi di argilla e a quelli grigi di roccia arenaria, alle foreste pluviali lussureggianti.
Molti cuori e una capanna
Ai bordi delle vie di comunicazione sorgono tantissimi villaggi, spesso di poche capanne, realizzate con un’impalcatura di legno, riempita da muri di canne di bambu, e tetto di foglie di palma. In altre zone i muri sono realizzati intrecciando la paglia con il fango compresso. Sembrano precarie ma sono molto funzionali nella stagione secca, non altrettanto nella stagione delle piogge, quando molti abitanti sono costretti a trasferirsi nelle cittadine per poi rifare da capo la capanna.
Manca la corrente elettrica nei villaggi, ma sempre più capanne sono attrezzate con un piccolo pannello solare messo per terra accanto alla porta, che dà quel minimo di energia sufficiente ad una lampada o ad accendere il fuoco. L’alternativa è la lampada a petrolio ed il carbone. Questa necessità di grande quantità di carbone sta portando purtroppo ad un disboscamento massiccio delle foreste. Ci sono villaggi interi di “carbonari” che si sostentano bruciando gli alberi e ricavando il carbone da vendere.
Le capanne sono piuttosto piccole e arredate davvero con l’essenziale, ma la profonda povertà della popolazione rurale non è tragica come in altri Paesi africani, perchè questa è una terra generosa. Il mare dà pesci in abbondanza, sulla terra gli zebù trovano da pascolare bene, e i frutti che donano gli alberi sono tanti e dolcissimi: non c’è quindi un problema di fame, ma c’è sicuramente un problema di sviluppo, istruzione e condizioni di vita.
La popolazione del Madagascar è giovanissima, ogni famiglia ha almeno 5 bambini. Questo ritmo di crescita dà un’idea del futuro del Madagascar, che al di là dell’idea idilliaca della vita naturale non toccata dal progresso, dovrà prima o poi confrontarsi con un modello di sviluppo che permetta di gestire risorse sufficienti per una tale crescita demografica.
Un Paese povero ma sereno
Che cosa è la felicità? Si potrebbe aprire un lungo dibattito, ma quel che è certo è che non coincide col PIL ma richiede la serenità circa i bisogni di base. Bene, il Madagascar mi è parso un luogo nel complesso felice, o almeno un luogo dove regna una grande serenità. I bambini indossavano vestiti magari logori ma sono estremamente dignitosi e curati, e mi parevano sempre allegri come un bambino deve essere.
Li vedevo giocare lì tra le capanne, sul ciglio della strada, sempre in gruppo e allegri, e quando passavamo con l’auto si giravano, sorridevano e salutavano con la mano tentando qualche parola di francese imbastardito o persino di italiano. Non ho mai visto in tutto il viaggio un giocattolo in senso stretto, tranne una manciata di biglie, ma ho visto sciami di bambini divertirsi a giocare a campana, o a far ruzzolare un copertone con due bastoncini di legno, o ad acchiapparsi o a cantare e ballare insieme, che poi il vero divertimento è sempre la compagnia.
Poi, a 14 anni ci si inizia ad annoiare e allora qui si fanno bambini, anche se l’età per il matrimonio è fissata in 18 anni, e l’età per un regolare contratto di lavoro addirittura in 21.
A volte, nei villaggi dove i turisti si fermano, gli uomini sono pochi perchè si dedicano alla pesca o accompagnano al pascolo gli zebu, o distillano zucchero di canna per il rum, le donne si dedicano alla vendita di artigianato tradizionale, e i bambini si ingegnano in gruppi a fare piccoli cori per i turisti chiedendo “bon-bon”, dolcetti. Vanno bene i dolcetti ma mai soldi, perchè insegnano il guadagno facile in un Paese in cui lo stipendio medio va dai 50 ai 100 euro al mese, e tolgono ai bambini la voglia di studiare.
La difficile istruzione
Studiare non è facile qui. Non è facile perchè mancano i soldi per comprare il materiale scolastico, perchè le scuole elementari pubbliche dei villaggi non sono di grande livello e se si vuole una vera istruzione occorre rivolgersi alle scuole private, spesso religiose. E non è facile soprattutto continuare gli studi superiori, perchè i licei si trovano naturalmente in città e i bambini devono percorrere decine e decine di kilometri a piedi, o addirittura remando in piroga per i piccoli delle isole. Per questo gli studenti sono spesso dei piccoli eroi.
Se mai vi capiterà di andare in Madagascar, partite con una valigia piena di quaderni, pennarelli, penne, gessetti, o ancora meglio comprateli sul luogo in città aiutando l’economia locale, e fermatevi nei villaggi a distribuirli ai bambini. Li renderete felici, e lo capirete dai loro occhi, al di là delle poesiole di ringraziamento che sono stati educati a recitare e che personalmente mi mettono quasi in imbarazzo.
Villaggi e specializzazione
Noi ci siamo fermati in un villaggio specializzato nella produzione di salsa di mango. I manghi acerbi vengono tagliati in sottili striscioline e fatti fermentare in bottiglie di plastica.
Qui abbiamo lasciato tutte le bottigliette vuote dell’acqua che abbiamo consumato nel viaggio, e del materiale scolastico. Ci hanno accolto con un calore straordinario e la bambina veniva abbracciata a gara dai bimbi (col mio terrore per gli evidenti pidocchi presenti).
Arrivando da Nosy Be sulla terraferma del Madagascar al porto di Anfiki, abbiamo girato per tutto il nord percorrendo la terribile Strada Nazionale tutta buche e poi le varie strade secondarie sterrate.
Così siamo passati attraverso tanti villaggi, ognuno specializzato in qualche particolare produzione, che spesso si riflette nel nome. In alcuni villaggi i “vasà”, come chiamano i bianchi, sono rari e così abbiamo suscitato la curiosità e l’interesse degli abitanti.
In alcune zone più remote i bambini scappano vedendo i fuoristrada: così gli hanno insegnato a fare i genitori, preoccupati che i vasà possano rubarli per il commercio di organi. A volte purtroppo è successo.
Abbiamo attraversato i villaggi dei minatori di zaffiro (se ne trovano da comprare ma le pietre più belle vanno ai padroni stranieri) e degli spaccatori di pietra per l’edilizia.
Abbiamo incontrato i villaggi di allevatori di polli (ogni villaggio in realtà ha un suo numero di polli del tutto liberi, certo non ci sono produzioni in batteria), di coltivatori di riso, di produttori di anacardi tostati (venduti in sacchetti lungo la strada e deliziosi), di preparatori di pili-pili (il famigerato peperoncino locale) e di spezie, di raccoglitori di ylang ylang, di distillatori della canna da zucchero, di artigiani del legno di tek, di ricamatori di tovaglie, di intrecciatori di ceste e gabbie di raffia e palma, di pescatori.
Ogni agglomerato di capanne che assurga al valore di villaggio ha al centro delle capanne un orrendo regalo governativo, ognuno identico agli altri, una sagoma in cemento del Madagascar in onore dell’8 marzo festa della donna.
Abbiamo visto mercati settimanali di villaggio, in cui è presente un’economia molto primitiva anche di scambio. Particolarmente vivace è il mercato di Ambilobe, paese dove ci siamo fermati a sgranchirci gambe e schiena lungo i 250km di strada dissestata che in circa 6 ore da Anfiky ci ha portato al parco di Anjahakely.
Le donne ed anche le bambine portano la cesta ed i pesi sulla testa con un equilibrio da fare invidia alla più consumata modella.
Tra i banchi, tanti pomodori, cipolle, pesci freschi o essiccati, gamberetti e granchi, erbe varie commestibili o medicinali, strisce di carne di zebu appese al braccio con una corda come bracciali dai venditori, caschi di banane piccole e dolcissime.
Ci siamo imbattuti in capanne di paglia 1 metro per 2 con l’insegna “coiffeur” dove si fanno le treccine e si spalma sulla faccia una polvere ricavata dalla corteccia degli alberi che ammorbidisce e schiarisce la pelle. Abbiamo usufruito anche noi dei servizi di gommisti sotto a una tettoia di lamiera, a cui non manca mai il lavoro.
Ogni tanto una piccola chiesetta e vicino, sempre una scuola. Le suore cattoliche stanno facendo tanto per l’istruzione dei bimbi.
Zebu
In un Paese povero , non viene considerato uomo di successo chi ha cultura, ma chi è ricco ( il che spesso non coincide proprio), e la ricchezza qui viene calcolata in numero di zebu posseduti. Gli zebu sono come le nostre mucche, con le corna e una gobba sulla schiena.
Ce ne sono 19 milioni in Madagascar. Aiutano nei lavori nei campi tirando l’aratro o il carretto, girano la mola che trae il succo dalle canne da zucchero per il rum, costituiscono la base proteica principale dell’alimentazione malgascia. Tanto più è bella e corteggiata la donna che un uomo vuole sposare, tanto maggiore è la dote in zebu che deve portarle (finalmente un posto dove la dote la devono portare gli uomini!).
Zebu di qualità diversa hanno naturalmente prezzi diversi, un valore indicativo è intorno ai 150 euro, ma possono arrivare anche a 500 euro. I più pregiati sono quelli con il muso bianco, e il sacrificio di uno zebu dal muso bianco è considerato un grande onore riservato al festeggiato.
Gli zebu si ammazzano prevalentemente per le feste, per i grandi eventi, dal matrimonio al battesimo alla circoncisione e perfino al funerale. Spesso gli invitati mangiano per giorni la carne dello zebu ammazzato, e reintegrano il costo con donazioni in denaro, a tutto vantaggio del festeggiato. Ci raccontava la guida che alcune cerimonie sono diventate un vero e proprio business per l’obbligo degli invitati di regalare soldi al festeggiato, così ad es. c’è chi circoncide bambini di lontani parenti per potere fare una festa e raccogliere i soldi del regalo.
Cristiani, Musulmani, Animisti: tre religioni in pace tra loro
Le occasioni di festa non mancano mai anche perchè in Madagascar convivono tre religioni. Il Cristianesimo è la religione più diffusa, seguita dall’Animismo soprattutto nelle campagne e dall’Islam che ha fatto presa soprattutto tra la popolazione più povera del sud. Le tre religioni si rispettano tra loro e in qualche modo si sono contaminate nelle usanze.
Così non è raro che i cristiani rispettino anche i riti e le usanze animiste. Riconoscere la sacralità della natura e l’esistenza di un mondo intermedio di spiriti non appare in contrasto con la fede monoteista; i tabu che si tramandano sono un collegamento con il mondo degli antenati e con le risorse della terra da rispettare e onorare, nonchè una prima legge naturale che mantiene la coesione sociale.
O ancora un rito tipicamente musulmano come la circoncisione è praticato da tutti i malgasci, cristiani e animisti. E’ un precetto igienico ed un rito di passaggio per i bambini maschi, mentre fortunatamente l’infibulazione non è praticata alle bambine. L’operazione è svolta in sicurezza da un medico e poi per tradizione lo zio del bambino mangia il pezzo di pelle asportato. La tribu degli Antambahoaka addirittura celebra collettivamente ogni 7 anni la circoncisione di tutti i bambini, con una festa di migliaia e migliaia di invitati.
Lo sciamano ha grande importanza non solo per gli animisti ma anche per i credenti delle altre religioni che si rivolgono a lui anche per aspetti medici, anche perchè la farmacopea malgascia è basata sui principi curativi delle erbe, e pare peraltro che vi sia un antivirale che ha dato straordinari effetti nella lotto contro il coronavirus, così che la mortalità è risultata estremamente bassa.
Lo sciamano è anche chiamato per siglare con la sua benedizione quasi notarile accordi tra famiglie. Esiste ancora il patto di sangue con cui due uomini decidono di imparentare le loro famiglie, bevendo il sangue dell’altro raccolto dallo sciamano con un’incisione.
Riti funebri, bloccati da un funerale sulla via di Anjahakely
Gli animisti onorano una serie di luoghi sacri tramandati dagli antenati. Sono di solito luoghi molto belli, grandi alberi secolari, cascate e laghetti incontaminati, isole vergini. Quelli sono i loro templi dove celebrano i riti, accompagnati dai sacrifici propiziatori.
Una complessa rete di fady, ovvero tabu da rispettare, legati alla morte e al culto degli antenati che proteggono materialmente e spiritualmente i vivi, fa sì che vi siano delle usanze funebri molto particolari, che variano da zona a zona e da tribù a tribù.
Un rito particolare è quello della Famadihama, la riesumazione del morto che avviene in una data determinata dallo sciamano con calcoli di tipo divinatorio, quando ormai le ossa si sono seccate. Il corpo viene disseppellito, le ossa composte e avvolte in bende di lino bianco, e il morto viene portato alla tomba definitiva in processione tra balli canti e lazzi, e segue una festa di tutto il villaggio con uccisione di zebu.

In un’altra tribù al momento della morte tutti gli zebu di proprietà del defunto vengono sacrificati e il villaggio ne mangia anche per mesi, quasi in una forma di redistribuzione della ricchezza.
Io mi sono imbattuta in un funerale percorrendo il sentiero sterrato che porta alla Riserva Naturale dell’ Anjahakely. Lasciandoci alle spalle risaie e palmeti, ci siamo addentrati in un’ area remota di savana, prima di arrivare in cima ad un promontorio circondato da colline e foreste, dove si trovava la base per un’escursione in una foresta dove abitano il raro lemure nero, il lemure coronato e diverse specie di uccelli e camaleonti.
Percorrendo appunto tra nuvolette di polvere il sentiero sterrato e pietroso che ci portava alla meta, abbiamo raggiunto un centinaio di persone, abbigliate come a festa nei caratteristici coloratissimi parei malgasci, che danzavano e cantavano dimenandosi dietro ad una barella con un morto coperto da un lenzuolo bianco; gli uomini, ubriachi al terzo giorno di festeggiamenti, tentavano di lanciare baci e lazzi all’insegna della nostra macchina. A nessuno è venuto in mente di farci passare, e così per una mezz’ora ci siamo accodati anche noi allo strampalato corteo funebre. Appena hanno deviato e ci siamo liberati, l’ebrezza della ritrovata velocità dei 5 km l’ora è durata poco: gomma bucata, incidente quasi inevitabile da queste parti.
L’ecolodge in legno e paglia, unico alloggio in questa zona remota, ci accoglie con un panorama meraviglioso al tramonto sulla foresta che ci attende l’indomani per il primo incontro con la natura selvaggia del Madagascar. La cena consiste in una coppetta di brodo vegetale in cui navigano mezza carota, uno spicchio di cipolla e un pezzo di patata, seguito da uno spezzatino di zebu che non si riesce a masticare (lo zebu in generale è durissimo perchè non lo fanno macerare dopo la macellazione ma lo cucinano subito), e da una coppetta di cocomero e banana, il tutto per la durata di 2 ore e mezza. Mora mora!
Ma il trekking che ci aspetta nei prossimi giorni, tra foreste e pinnacoli di roccia, è tutt’altro che mora mora. Ve ne parlerò nel prossimo post…