Due amiche zaino in spalla alla scoperta dei tesori culturali e naturali e della scanzonata gioia di vivere del Mexico
Atterrare a Città del Mexico di sera fa una certa impressione, prima di tutto perchè si sorvola una sterminata distesa di luci che riflettono i suoi 25 milioni di abitanti, tanti ne fa l’area metropolitana, e poi perchè nonostante i suoi 2400 metri di altezza suggeriscano pura brezza di montagna si avverte da subito un’aria così inquinata da essere quasi irrespirabile. Immergersi subito nella vita della città, partendo dallo Zocalo, la piazza principale che ne è il cuore pulsante, cambia subito la prospettiva, annullando sia la sensazione di essere un insettino perduto in un immenso formicaio sia quella di aver bisogno di
una bombola di ossigeno per sopravvivere: all’inquinamento in effetti ci si abitua in poche decine di minuti (ricordo d’aoltra parte che provavo una sensazione simile da piccola ogni estate che tornavo dalla Sardegna e la nave approdava a Civitavecchia, e poi nella durata del breve percorso di auto per Roma ero già riadattata alla puzza urbana), e quanto allo smarrimento per le dimensioni sterminate della città, fare due passi nello Zocalo riporta ad una dimensione di vita da fiera paesana, e ci si sente subito a casa.
Nella piazza gremita di gente sino a tarda notte c’è proprio di tutto: venditori di souvenir vari e carretti di cibi dolci e salati (o tutte due le cose insieme, spesso piccanti o intrisi di limone), un banchetto dello zucchero filato che viene arrotolato sui bastoncini in eneormi bachi da zucchero rosa e celesti i cui preziosi fili si disperdono nell’aria, mentre torme di bambini (ed io tra loro, solo un po’ frenata non tanto dalla gravitas dell’età quanto dal ricordo dell’inquinamento) cercano di a
cchiapparli al volo per mangiarli; tra i banchi vari ne spicca uno sormontato da una bandierona rossa con falce e martello e, ultimo posto al mondo, grandi ritratti di Engels, Lenin e Stalin: lo stand è un primo segnale della presenza zapatista che fa sentire forte la protesta contro il governo e inneggia alla rivoluzione e ai diritti dei poveri con canti popolari di cui colgo brandelli per il vero piuttosto ragionevoli, come “los derechos umanos no se deven reprimir e a las leges naturales…”. Allontanandoci, si viene assorbiti da altre musiche di varia natura; sotto gli occhi del monumento a Cuauhtemoc, l’ultimo imperatore atzego , che guidò l’estrema resistenza indigena, (di cui si legge “il suo coraggio, lo stoicismo e la dignità è un esempio per tutti i messicani”), un gruppo di ballerini indios tutti piumati balla al suo del flauto di pan una musica in stile intillimani. Il traffico, tutto intorno allo zocalo, è impressionante anche di notte, perchè sì, tra un assaggio e l’altro ormai si è fatta notte. Le macchine sono sostanzialmente di due tipi: macchinoni americani e vecchi maggiolini; i vigili non fanno che fischiare forsennatamente, quasi fossero pagati a quantità di fiato sprecato. Ci sono anche tantissimi taxi e Città del mexico è tristemente nota per le rapine operate dai taxisti abusivi, e quindi è d’obbligo prendere solo i taxi autorizzati, quelli gialli.
E’ già tardi quando ci ritiriamo in albergo, ma non dobbiamo certo percorrere molta strada. L’Hotel Majestic è proprio sullo zocalo, ed è molto particolare, per il suo stile coloniale messicano, con quei suoi corridoi tinti di arancione intenso e il cortile centrale a più ordini di portici con al centro alti alberi; la colazione poi, a base di specialiltà locali e frutta tropicale è molto gustosa, anche se mi sono imposta di non assumere nessuna bevanda o cibo che contenga acqua non bollita, per non incorrere nella famosa vendetta (intestinale) di Montezuma.
Alle 6 di mattina lo zocalo, ancora deserto in una città che si alza tardi, ci si rivela in tutto il suo splendore. Al centro della piazza è impennata su un’alta asta la bandiera mesicana. E’ una delle bandiere più grandi al mondo, e ogni mattina alle 6 (ecco perchè la nostra alzata contro natura) viene fatta un’alzabandiera accompagnata da una pomposa marcia. La piazza è dominata dall’imponente cattedrale, col suo campanile su cui si ergono le statue della fede, della speranza della carità; la cattedrale sta lentamente sprofondando nel terreno di argilla morbida dove un tempo sorgeva il bacino di un lago; all’interno della cattedrale dominano i colori chiari, che danno un senso di grande luminosità in quello spazio molto vasto, in contrasto con le cappelle laterali dagli altari baroccamente dorati; visitandola mi colpiscono alcune curiosità: c’è l’altare de los rejes, un altare stracarico dove sono le statue di tutti i regnanti beatificati nel corso della storia della Spagna; vicino ad un’immagine di madonna miracolosa sono collocate delle grandi bacheche col fondo di velluto rosso su cui sono spillati migliaia di minuscoli ex voto d’oro (meno di un’unghia), raffiguranti uomini in ginocchio o parti del corpo miracolate.
A fare da contraltare alla cattedrale (da sempre il Messico è diviso tra religiosità fortissima e laicismo di Stato) nello zocalo è anche il palazzo presidenziale, che sorge dove un tempo era il palazzo di Montezuma, diventato poi la residenza di Cortès, che ospita un grandissimo e famosissimo dipinto murale di Diego de Ribeira.
Proprio dietro allo zocalo c’è un grandissimo mercato, così affollato che riusciamo a farci strada solo accodandoci ad un carretto, con venditori delle cose più disparate che urlano a squarciagola i prezzi – bassissimi – delle loro merci.
Lasciato il centro ci dirigiamo verso il bosco di Chapultepec, un grande parco meta di passeggio e di gite nei fine settimana, con tante bancarelle, inutile dire molte delle quali davvero curiose, ad es. una che vede popcorn di tutti i colori dell’arcobaleno, un’altra in cui “se pinta el pelo”, cioè si tingono i capelli, o ancora si vendono mascherine per bambini. Vi è una serie di bei laghetti navigabili con tanti pattini a noleggio montati sui quali si viene abbordati da venditori ambulanti su canoe.
Nel parco, con lo sfondo del Castillo in cima ad una collina, si trova il bianco monumento ai Ninos heroes,
che ricorda l’eroico episodio di quattro cadetti dai 13 ai 20 anni che intorno alla metà del 1800 si sacrificarono per difendere la scuola militare, quando le forzse americane invasero la città e i soldati furono dispensati dal combattere per non causare una strage, ma loro non vollero cedere e uno di loro per non cadere prigioniero si gettò nel vuoto dal castillo avvolto nella bandiera messicana. Questo singolo episodio mi porta a ripensare a tutta la tormentata storia messicana, storia di violenze, tentativi di rivoluzione e repressioni, sotto il controllo egemone politico ed economico dell’Europa prima, e soprattutto poi degli Stati Uniti. Consiglio a tutti di leggere due corposi romanzi storici di Valerio Evangelisti, “il collare di fuoco” e “il collare spezzato”, che raccontano im modo davvero avvincente e molto accurato la storia del Messico moderno. Penso che tanti problemi di povertà e violenza che ancora a
ttanagliano il Messico di oggi derivino dal rapporto di amore-odio con gli Stati Uniti, così ingombranti.
Attraversato il parco e lasciandoci da un lato lo zoo, giungiamo alla nostra meta che è il Museo Nazionale di Antropologia. Davanti al museo incappiamo in uno spettacolo tipico davvero particolare: i “voladores”, quattro uomini in costume indios, si arrampicano senza protezione su un’asta altissima, in alto è posta una ruota che gira, da cui pendono funi da cui loro, sempre girando legati a testa in giù per un piede, si fanno calare sino a terra, per poi rigirarsi all’ultimo momento. Certo non soffrono di vertigini!
Il museo è grandissimo e ci vuole davvero tanto tempo per una visita decente, ma ne vale la pena.
Si passa da ricostruzioni antropologiche ed etnografiche ad una spledida collezione dell’arte precolombiana. Sarebbe difficile fare l’elenco delle cose che mi hano colpito, però mi sono sembrate davvero interessanti le ricostruzioni a grandezza naturale delle scene di vita rurali, con i costumi tipici coloratissimi e le rappresentazioni di tradizioni particolari (come quella di decorare con grandi collane di fiori ed offerte le tombe per la festa dei morti e banchettare allegramente nei cimiteri) o gli oggetti di artigianato che sono capolavori di certosina pazienza, come i grandissimi animali di stoffa interamente ricoperti di minuscole perline cucite a creare motivi geometrici sgargianti, o le arche di Noè di terracotta traboccanti di statuine di tutti gli animali immaginabili, gli oggetti e le maschere legati a simboli magici, gli arazzi che sono un’esplosione di colori, Ma se queste sono curiosità, la parte davvero imperdibile del museo è quella dedicata all’arte Maya. Nella sala dedicata alla cultura del nord del paese, spicca tra le tante la maschera del guerriero Malinaltepec coperta di tessere semipreziose, la stele di Calalcmuc che rappresenta un autosacrificio (i Maya si bucavano la lingua e si facevano passare attraverso di essa una corda che impregnata di sangue costituiva cibo per gli dei), varie statue di co
ntorte divinità Maya che popolavano la cosmogonia, una stele dedicata all’antenato cruento del nostro gioco del calcio, in cui il premio per il vincitore era essere sacrificato agli dei. Nella sala dedicata agli Olmechi, che popolavano la costa del golfo, c’è una testa megalitica ritrovata nell’oceano, tante statuette rappresenanti uomini e donne e anche dei gemelli siamesi, un bassorilievo con una divinità Maya che regge in mano un’elegante borsetta, un vecchio dio che sembra portare il peso della stanchezza del mondo su di sè, lucide e raffinate maschere di giada o di turchese, un intonaco con alcuni dei pochi esempi di pittura giunti sino a noi. Nella sala dedicata alla cultura di Oaxaca una statua di uomo-giaguaro accovacciato in attesa di scattare.
Usciamo dal museo e ci immergiamo nella vita della città che nel frattempo si è fittamente popolata.
C’è una grandissima quantità, concentrata peraltro in precise vie, di enormi negozi che vendono oro, con le vetrine stracariche di monili e soprattutto di pendenti raffiguranti la Katarina, la “Santa muerte”, uno scheletro con la falce in pugno rappresentante la morte, venerata in Messico appunto come santa.
Andiamo un po’a zonzo per la città .Passiamo a fianco delle rovine del Tempio Major, che si erge su 4 livelli, ma di cui non è rimasto moltissimo. Il punto di riferimento per orientarsi in tutta la città è l’altissima Torre LatinoAmericana, che è visib
ile dappertutto come una stella polare. Vediamo la chiesa di S.Francesco, diversi palazzi tutti decorati, di cui uno tutto con delle azulejas, il Palazzo di Belle Arti, il palazzo delle Poste che è un bellissimo edificio liberty, poi troviamo una via di negozi di articoli per Mariachi. I Mariachi sono quei terribili complessini musicali melodici che cantano ccl charro che ricorda un vestito da damerino spagnolo, e il sombrero in testa serenate interminabili nelle barzellette sui messicani. Scherzi a parte, la musica tradizionale dei Mariachi è un’icona del folclore messicano, e qui a Città del Messico c’è una piazza, dove si trova un monumento ai Mariachi, dove la sera si danno convegno tanti gruppi di Mariachi che cantano con i capannelli di gente intorno. Ottima ninna nanna per la notte che ormai è arrivata.
Di buon’ora siamo di partenza per la laguna di Xochimilco, nella parte sud di Città del Mexico. La concierge dell’hotel si offre di procurarci un taxi fidato e arriva un carro funebre riadattato, con tanto di Cristo piangente impresso sul vetro; può darsi che sia un buon stratagemma per farsi largo nel traffico! La laguna di Xochimilco è così pittoresca da essere qualcosa di unico. Si parte da un imbarcadero dove sono ormeggiate tutte pigiate delle barche di legno a fondo piatto coperte da un telone e colorate come carretti siciliani; saliamo su una di queste e iniziamo un giro per i canali in stile gondola: veniamo omaggiate di rose dal chiatto barcaiolo che ci tiene a precisare che i messicani sono molto calienti! Su alcune barche che incrociamo si suona e si balla, su altre si mangia, su altre espongono le loro merci i venditori molto insistenti che riescono a rifilarci improponibili souvenirs.
Passeggiamo poi per il quartiere chic di Polanco, con belle ville coloniali, spesso con valletti in abito coloniale sulla porta (quando uno è ricco in un paese povero è molto più ricco!) e ristoranti eleganti; Il viale presidente Masaryk è la sede dei negozi più esclusivi della città. Continuando il giro per la città con un bus turistico ci rendiamo conto delle dimensioni di Città del Mexico; ovunque siamo sommersi da istantanee di monumenti che affollano non solo il centro storico ma anche vari distretti decentrati: troviamo la fontana che commemora l’espropriazione e nazionalizzazione del petrolio, la monumentale e lunghissima fontana da cui emergono grandi maschere di pietra, dedicata alla creazione dell’acqua, poi il museo del bambino, un grande luna park con alte montagne russe. A Piazza Madrid troneggia la fontana di Cibele, la stessa che si trova anche in Spagna; poi c’è il monumento a Cristoforo Colombo, una grande scultura gialla di Calatrava che rappresenterebbe un cavallo; attraversiamo i giardini dell’Alameda Central, l’emiciclo di colonne di marmo bianco dedicato al presidente Benito Juarez. Poi le immagini ormai familiari dello zocalo ci annunciano che siamo arrivati al termine del nostro assaggio della capitale.