Patagonia e Terra del Fuoco: cieli e terre infinite

Buenos Aires – aeroporto di Trelew – Puerto Madryn – Peninsula Valdes

 

I grandi viaggiatori che hanno descritto la Patagonia come la terra della libertà e dei grandi spazi, hanno reso poetico il mito del nulla assoluto.

vela

Quando l’aereo atterra nell’aeroporto del capoluogo della Patagonia, Trelew, ci si rende subito conto di essere arrivati letteralmente in mezzo al nulla. Il nostro è l’ unico aereo presente nel piccolo aeroporto ancora parzialmente in costruzione, appena atterriamo i bagagli vengono scrupolosamente passati  sotto i raggi X per verificare che non si stia importando nell’ecosistema patagonico nessun elemento di perturbazione, come semi, fiori, prodotti di origine animale.

Arrivano in fretta tre tizi che aprono, apposta per l’occasione dell’atterraggio del nostro aereo, altrettanti banchetti di autonoleggi: due sono note case internazionali, la terza è una compagnia locale; chiediamo a quest’ultima il noleggio di un’auto per quattro giorni, a chilometraggio illimitato così come abbiamo letto sulle guide che sia più conveniente, ma quando ci offrono un’auto solo a chilometri predefiniti, commettiamo l’errore di rivolgerci alle altre compagnie; poichè scopriamo che tutte le auto sono prenotate da mesi, torniamo con la coda tra le gambe dal primo autonoleggio che con sorrisetto canzonatorio ci dice che ormai non ci sono più auto nemmeno lì.

Nel frattempo il bus è andato via e con lui anche i taxi. Davanti a noi si stende all’infinito un’unica piatta steppa che si perde all’orizzonte.   Benvenute in Patagonia. Mentre eravamo rassegnate a chiedere un passaggio agli operai al lavoro per la costruzione dell’aeroporto, arriva una vettura da autorimessa privata che è disponibile a portarci a Puerto Madryn, dove ci sono diversi autonoleggi e abbiamo più chances di trovare l’autovettura che per noi è indispensabile, poichè il nostro hotel è un faro che sorge sulla più remota estremità della Peninsula Valdes e certo non è raggiungibile in altro modo.

Mentre accenniamo ad una trattativa sul prezzo, arrivano altri viaggiatori e vediamo l’autista volgere verso di loro lo sguardo. Io e Monica ci guardiamo terrorizzate e all’unisono accettiamo il prezzo richiesto.

A Puerto Madryn faticosamente troviamo un’automobile, è una decrepita Ford Fiesta bucata sul fondo (!) e conseguentemente       invasa dalla polvere e dalla terra, ma con un’incongrua scritta sul vetro: controllata por satellite” ! Ormai non discutiamo più su nulla e accettiamo immediatamente. Abbiamo un po’ di tempo per visitare comodamene la città.

Puerto Madryn è un porto turistico, pieno di negozi di souvenir senza alcuna civetteria. Sul mare, nella piazza principale, circondato da banchetti di venditori si erge il monumento ai fondatori gallesi e agli indigeni, l’unione del cui sangue ha dato origine allo sviluppo della cittadina in questa terra inospitale di frontiera con l’oceano.

Fra i ricordini di rito che acquistiamo (ancora pinguini, ma qui ha finalmente senso acquistarli, leoni marini in tutte le salse, t-shirt patagoniche con mare, pecore e altri pinguini) c’è posto anche per due dolci, gli “alfajores”, paste secche farcite di dulche de leche,  l’ottima “torta gallesa”, specialità locale in porzioni monouso che una volta riscaldata al sole del cruscotto durante le lunghe ore di viaggio si rivelerà una risorsa essenziale per il nostro pancino affamato.

C’è anche un monumento ai caduti della guerra delle Malvine, o Falkland per i nemici inglesi, due isolotti del tutto insignificanti al largo delle coste meridionali della Patagonia, che sono decisamente parte integrante del territorio argentino ma che hanno la colpa, guarda caso, di essere al centro di una zona di interessanti giacimenti petroliferi.

E’ impressionante il tributo umano che per una guerra tanto breve e dall’ esito scontato praticamente ogni città dell’ Argentina ha pagato, come si vede dal lungo elenco dei morti della piccola cittadina di Puerto Madryn. I veterani di guerra si sentono traditi e abbandonati e rivendicano maggior riconoscimento dallo stato argentino, li abbiamo visti manifestare a Buenos Aires, li abbiamo incontrati ancora qui in Patagonia.

Quando torniamo a prendere la nostra auto si fa per dire nuova di zecca scopriamo di aver preso una multa: l’autonoleggio ce l’ha consegnata in divieto di sosta. Dopo un tentativo di litigio ispano-inglese ci si accorda per pagare la multa a metà con la compagnia e si parte in direzione della Peninsula Valdes, uno spunzone di terra proteso sull’oceano che sulle carte dell’ Argentina  sembra tanto piccolo ma che sulla strada sembra enorme.

La Peninsula Valdes è una grande riserva naturale, per entrare si paga un pedaggio (un tot a persona e un tot per la macchina), si raccolgono le ultime informazioni in un grazioso centro visitatori che espone esemplari impagliati della fauna locale, filmati, fotografie e poi ci si addentra lungo un’unica strada sempre diritta che corre in una steppa verde pallido, giallastro-marroncina, costellata qua e là da piccoli cespugli di erba spinosa, senza nessuna presenza umana a perdita d’occhio.

Dopo un po’ le buche sul fondo stradale si intensificano, quindi improvvisamente finisce l’asfalto e continua la strada sterrata, di cui aspiriamo tutta l’essenza tramite il famoso buco sul fondo della macchina, che sobbalza e sbanda in balia d un vento che non trova ostacoli; mi domandavo come mai una strada che corre senza ostacoli in una pianura avesse un altissimo tasso di incidenti anche gravi: la risposta sta in parte nel pessimo stato dello sterrato che quando piove diventa fango scivoloso equando si secca troppo solleva nuvole di polvere che diminuiscono la visibilità,  in parte nel forte vento, in parte nella monotonia del paesaggio che diminuisce l’attenzione ed i riflessi; senza contare poi  il sole  davanti a noi, basso e  bruciante, mai coperto dalle nuvole, che sta trasformando la nostra abbronzatura in un principio di ustione.

Il cielo è il grande paesaggio dell’ anima in Patagonia, di un azzurro intenso, di un’estensione immensa e dilatata, in cui anche le nuvole sono cespugli surreali e bianchi che sembrano essere lo specchio capovolto dei cespugli disseminati nell’altrettanto immensa steppa. In Patagonia  non ci sono mucche, morirebbero di fame, ma diverse pecore grassocce libere di vagare per i campi; quando nella noia del cammino ne incontriamo una esultiamo e fotografiamo; quando un intero gregge decide di attraversarci la strada saltellando come nella sigla del carosello siamo in visibilio.

Man mano che ci addentriamo, scopriamo nell’apparente vuoto un’ incredibile varietà di vita. Intanto il nandù (lo struzzo), il guanaco (un ruminante che è a metà tra una gazzella e un lama), la volpe rossa, l’armadillo che sembra un piccolo dinosauro fuori dal tempo, il coniglio patagonica (che è  alto sulle zampe come una lepre), e numerosi uccelli e rapaci. Gli apparentemente insulsi cespuglietti, poi, a guardarli bene sono tutti fioriti di minuscoli graziosi fiorellini gialli.

A metà strada troviamo il primo insediamento umano, Puerto Pyramides; a questo punto, dopo sei ore di strada sterrata ci sentiamo già eroine dell’ esplorazione patagonica, e scopriamo con grande raccapriccio che la piccola e brutta spiaggia di Puerto Pyramides ha la stessa densità turistica di Riccione. Essendo infatti l’unica spiaggia attrezzata nel raggio di molte centinaia di chilometri, è affollata dai villeggianti che provengono da tutta la regione, oltre che meta dei battelli turistici che nella stagione giusta (novembre-dicembre) fanno vedere da vicino la balena franca australe e le grandi orche, e a gennaio-febbraio fanno invece ammirare i leoni e gli elefanti marini che popolano la costa.

C’è perfino il venditore di coloratissimi e immensi gelati con cucchiaini risciacquati e riciclati. Non ci siamo, occorre spingersi ancora avanti per trovare l’autentica anima della Patagonia.

istantanea-video-20Ancora in macchina, ancora chilometri e chilometri, polvere, vento.       Dall’ufficio in Italia continuano a chiamarmi,       impartisco istruzioni e affronto problemi       di varia natura dall’altra parte del mondo, quando ad un certo punto il campo cessa, i contatti con il mondo sono finiti.

Confesso che lì ho provato una sensazione di momentaneo smarrimento; finchè il cellulare è vivo nessun posto è veramente altrove; la comunione con il mondo, nella società contemporanea non passa per la natura ma per il cellulare; ci vuole un po’ di tempo per riorientarmi su me stessa e sulla solennità del paesaggio che mi circonda, liberandomi dalla falsa percezione dell’indispensabilità della mia presenza per il mondo.

Non incrociamo praticamente più nessuna macchina, nè alcun segnale stradale e non sappiamo quanto manchi alla nostra meta. A  tarda sera finalmente  intravediamo all’orizzonte un faro rosso circondato da alcune case: è il Faro di Punta Delgada, il nostro suggestivo alloggio sull’estremità della penisola; si tratta di un faro ancora funzionante, con annessa un’antica stazione di posta e alcune masserie, trasformati in un hotel da campo lussuoso e pieno di attenzioni, che sorge a picco su una spiaggia privata che è la più grande colonia di elefanti marini della Patagonia.

L’hotel è caro per gli standard argentini, ma è tutto compreso: ogni giorno ci sono jeep che portano ad esplorare la fauna dell’entroterra, la costa, le spiagge, le straordinarie formazioni geologiche della zona. C’ è a disposizione un maneggio per percorrere al galoppo o in tranquilla passeggiata gli immensi spazi della pianura, ci sono squisiti dolcetti fatti in casa e mate e tè caldo sempre a disposizione.

L’acqua della doccia però è pompata dal mare ed è salata, la carta – come del resto in tutta l’argentina -non si può buttare nel gabinetto ma in minuscoli cestini foderati  di stoffa ricamata, al punto che ci domandiamo se abbiamo capito bene le istruzioni per l’uso.

L’ impatto con l’oceano è straordinario, al tramonto dall’ alto della scogliera si può vedere nettamente che il bassissimo orizzonte è curvo. Il mondo è davvero tondo. Siamo seduti su rocce che evocano milioni di anni di storia, tutte costituite da miriadi di bellissime conchiglie fossili. In basso, sulla spiaggia su cui sta calando la bassa marea, si sentono le urla sorde e prolungate degli elefanti marini. La notte dormo un sonno profondo e sereno come da tempo non mi capitava.

Punta Delgada – Caleta Valdes – Estancia La Elvira

E’ il giorno dell’emozionante incontro con gli elefanti marini. Scendendo giù per un ripido dirupo arriviamo sugli scogli prospicenti la spiaggia dove vivono in questa stagione migliaia di queste creature, che vengono qui a cambiare pelle ogni anno.

Ci avviciniamo controvento, stando attenti a non fare rumore o movimenti bruschi, di tanto in tanto ci fermiamo per farli abituare alla nostra presenza, e arriviamo a due passi da loro, ci sediamo e passiamo ore ad ammirarli. Sono animali possenti, i maschi arrivano anche a 4 tonnellate, si trascinano apparentemente in maniera pigra sulla pancia per alcuni secondi, poi si riposano; in realtà fanno un incredibile lavoro di addominali per fare quel movimento. A vederli da vicino si scopre un dettaglio impressionante: le pinne con cui si grattano sembrano mani con tutte le dita!

Grattandosi e rotolandosi nella sabbia pian piano squamano la pelle vecchia color marroncino chiaro e sfoderano una lucente nuova pelle nera; la spiaggia è tutta coperta di squame di pelle di elefante marino. Qualcuno dorme a pancia in su e russa, qualcuno si spinge fino al mare e si fa una nuotata, diventando improvvisamente leggiadro come una sirena nell’ambiente d’acqua.

Tutti hanno grandi e teneri occhi neri lucidi, riposano al sole tutti vicini con un’espressione di beatitudine sul muso, fanno una grande tenerezza.

Eppure l’economia di queste zone si è per anni basata quasi interamente sulla caccia ai leoni e agli elefanti marini, oltre che alle balene. I primi coloni si distinguevano per la loro attività di “loberos” e di marcanti di sottoprodotti derivati da questi animali, oggi protetti con grande attenzione.

Non paghe di questo spettacolo naturale bellissimo, al nostro ritorno al faro decidiamo di prendere la macchina e di inoltrarci ancora sino alla Caleta Valdes, dove si trova un’ altra colonia di elefanti e leoni marini e soprattutto una piccola ma vivace colonia di pinguini Magellano.

La Caleta Valdes, che si può vedere solo da lontano essendo una riserva naturale, è molto bella, una striscia di sabbia chiara si estende in mezzo al mare azzurrissimo, e i pinguini saltellano su fino al mirador turistico, curiosi della nostra presenza quanto noi della loro. E’ uno scambio alla pari.

Darwin si fermò a lungo in queste zone, affascinato e stupito dal come mai una terra deserta e battuta dal vento abbia generato una tale ricchezza di vita. Non lontano dalla Caleta Valdes, l’Estancia Elvira ci offre un bel percorso naturalistico attrezzato, che aiuta a scoprire i segreti della flora e della fauna “minore” ma ugualmente ricca.

Tra le curiosità vediamo l’artiglio del diavolo,  arbusto che conoscevamo solo per la famosa pomata contro i reumatismi. Poichè viene vantato come rimedio universale, troviamo senza esito a strofinarne un po’ su Monica che è febbricitante ma continua stoicamente ad andare avanti. Intanto il cielo si annuvola improvvisamente e diventa sempre più cupo e giallo, mentre arriva il tramonto.

Facciamo appena in tempo a tornare al faro  e a chiuderci in camera che si scatena una grande tempesta di pioggia, fulmini e sabbia che scuote ogni cosa e riversa in camera terra  rossa nonostante le finestre siano chiuse, poi cessa improvvisamente come era venuta, lasciandoci ad ammirare un tramonto surreale e bellissimo.

Peninsula Valdes- Trelew

Si riparte, oggi è un interminabile giorno on the road, ancora pecore, guanachi, steppa e cielo. Monica che guida ha preso un po’ troppo la mano e va velocissima sulla strada sterrata, così entra ancora più sabbia dal buco sul fondo dell’auto e ormai tutti i vestiti, i capelli, i bagagli sono tutt’uno con la terra.

La noia mi fa continuare a filmare, e il filmino risulterà un fedele specchio del nulla che stiamo attraversando. Quel che è peggio, entriamo in vena di riflessioni sulla vita, e così la giornata assume tenore goffamente filosofico. Ci rendiamo conto di aver sottovalutato le distanze programmate, e così, usciti dalla riserva della Peninsula Valdes al calare della sera, decidiamo di fermarci a cercare un albergo a Trelew.

L’Hotel Touring Club sembra uscito da una cartolina della bella epoque, un tempo doveva essere un albergo che si dava un tono, oggi è alquanto decrepito, le sue minuscole stanze in cui facciamo fatica a trovare uno spazio per terra dove appoggiare i bagagli, i fogli di carta igienica rinsecchita, i lettini di ferro battuto, si sposano al bar dalle alte volte tutto coperto di specchi liberty e strati di polverose bottiglie; anche gli anziani proprietari sembrano appartenere ad un’altra epoca. Non riusciamo a farci capire quando chiediamo una cioccolata col latte, e ci portano un bicchiere di latte caldo con un cioccolatino a forma di sommergibile da immergere a guisa di cialda; pare che sia una specialità locale che chiamano appunto  “il sommergibile”.

Andiamo a letto stanchissime  e dopo aver litigato sull’ itinerario del giorno dopo. Fa bene litigare ogni tanto, rinsalda l’amicizia.

Punta Tombo

Ancora in macchina, sempre sulla ruta 3 ma questa volta verso sud, alla volta di Punta Tombo, la più grande colonia di pinguini della Patagonia e di tutta l’ Argentina.  Il mio archetipo mentale di pinguino lo prevedeva in posa sul ghiaccio. Punta Tombo invece è un’enorme distesa di steppa patagonica, che va dal mare sino alle colline che si perdono all’orizzonte, dove i pinguini si sono costruiti i loro nidi scavati all’ombra dei cespugli per proteggersi dal sole cocente.

Inizialmente, da lontano, non li vedi, senti solo lo stridio che si diffonde nell’aria per chilometri e chilometri. Poi, affinando la vista, ti rendi conto che sono dovunque, e ti girano intorno tutti affaccendati senza nessun timore della presenza umana. E’ Il periodo dell’ anno in cui vengono svezzati i piccolini, che pigolanti nei loro nidi aspettano papà e mamma pinguino, perfettamente interscambiabili nei ruoli, che li imbeccano e li spiumazzano. Altri zampettano in gran parte a coppie come carabinieri (i pinguini sono monogami e fedeli per tutta la vita), si spingono vicinissimi e si mettono in posa, così che viene proprio voglia di contravvenire alla regola della riserva naturale per cui bisogna stare a distanza di almeno un metro e cedere sempre la precedenza al pinguino che attraversa il sentiero.

Dopo una stupenda mattinata di trekking tra i pinguini torniamo alla macchina e, ahimè,       scopriamo che abbiamo lasciato le luci accese (in Argentina anche di giorno è obbligatorio l’uso delle luci) e la batteria è carica. Ci rivolgiamo al ranger che ci prende un po’ in giro,  incuriosito da queste due ragazze che girano da sole in lungo e in largo l’Argentina e poi si rivelano così imbranate! Risolto comunque il problema, ci rimettiamo in moto verso Trelew; per strada       la nostra attenzione è attirata dagli omnipresenti altarini rossi sul ciglio della carreggiata, alti circa 40 centimetri con il tetto a spiovente, segnalati da bandierine rosse e pieni di bottiglie e bicchieri; pensiamo che siano lapidi che segnalano incidenti mortali, ma ci spiegano che si tratta di altarini propiziatori di buon viaggio, nei quali gli automobilisti offrono al santo di turno da bere, alla salute!

Difficilmente ho incontrato nei miei viaggi città brutte, perchè ognuna ha un suo fascino particolare, ma Trelew è proprio bruttina, e ci rammarichiamo di averle riservato un pomeriggio intero nel nostro itinerario così serrato. L’unica cosa davvero interessante è il Museo Paleontologico Ermenegildo Ferruglio, che ospita una straordinaria raccolta di fossili dal sud America ed in particolare gli scheletri di giganteschi dinosauri perfettamente conservati ed inseriti in una scenografia d’effetto.

Abbiamo ancora un po’ di tempo per andare sulla spiaggia, distane una decina di chilometri da Trelew, e per mangiare in un chioschetto battuto dal vento un’ottima frittura di pesce fresco. Sul lungomare si incontrano i primi segni di un’urbanizzazione selvaggia e i distributori rossi dell’acqua calda per il mate.

Poi via all’aeroporto, dove prendiamo il volo per la fine del mondo.

USHUAIA

istantanea-video-9Il passaggio tra Patagonia e Terra del Fuoco è simile a quello di un cibo dal forno al surgelatore. L’aereo atterra sulla pista di Ushuaia in mezzo alla tempesta, piove a dirotto con grandi boati di tuoni e con un vento gelido che sferza la pista e le nostre t-shirt estive. Il termometro registra 1 grado.

E’ il momento di tirare fuori dai nostri bagagli tutto l’abbigliamento a cipolla  che è stato fino ad ora inutile. Velata dagli scrosci d’acqua sui vetri del pullman, vedo per la prima volta la città, che ci colpisce subito per la sua unicità di città di mare e di montagna insieme. Raggiungiamo il “Tango Bed and Breakfast”, che si rivelerà una delle sistemazioni più azzeccate di tutto il viaggio, per la comodità dell’alloggio e per il calore dei suoi gestori, una famiglia discendente da immigrati veneti, che ci darà tantissime dritte utili per l’organizzazione delle nostre giornate e sarà preziosissima per comprendere lo spirito dei luoghi.

Siamo eccitate e vogliamo informarci subito di tutto, così quando usciamo per fare una prima esplorazione della città ci rendiamo conto che sono quasi le 23.00 ed è appena il tramonto! Le giornate sono lunghissime qui, e così possiamo sfruttarle a pieno; abbiamo potuto constatare in questi giorni che la luce influenza profondamente i ritmi della giornata, e le giornate lunghe rendono più vitali e ricchi di energia.

USHUAIA – GLACIAR MARTIAL – CASTORERA

istantanea-video-15-150x150Ancora acqua, ma adesso è una pioggerellina fine che va e viene, e non disturba più di tanto il nostro primo giro della città sull’ autobus turistico. La prima tappa è presso l’Aeroclub, in una posizione strategica su una striscia di terra protesa sul canale di Beagle, da cui si possono scattare meravigliose foto panoramiche alla città.

Ushuaia si stende dal canale di Beagle per dolci colline, circondata da alti monti, è colorata, giovane e ricca di fascino.  Ushuaia è stata fondata solo a fine 1800 , prima c’erano solo le tribù indigene degli Yamana,  dedite  alla pesca e alla costruzione di canoe, su cui si spostavano sul canale di Beagle accendendo fuochi sia sulle barche che galleggianti sull’acqua come segnali; Magellano che li vide restò colpito e chiamò appunto questi luoghi “terra del fuoco”. Un po’ la sua posizione unica, un po’ la pubblicità derivatale dalla narrazione dei grandi viaggiatori, Ushuaia è in fortissima espansione, e nel giro di poche decine d’anni ha decuplicato il numero dei suoi abitanti (oggi circa 65.000), dediti in gran parte al turismo e al suo indotto. Ci sono moltissimi italiani di seconda o terza generazione, e non è casuale, perchè in questo viaggio abbiamo potuto notare che le zone a prevalente immigrazione italiana sono quelle che sono cresciute con maggiore energia e vitalità (al contrario della zona di El Calafate, a forte presenza ispanica e indigena, dove l’impressione è quella di una certa indolenza generalizzata, di un’incapacità di sfruttare a pieno le potenzialità di tanta bellezza naturale). Ushuaia ha saputo sfruttare in maniera mirabile il suo essere “fine del mondo” e una serie di attrazioni di per sè molto banali, ma valorizzate sino a diventare un marchio di fabbrica esclusivo.

La prima di queste è la Colonia Penale che è stata presente ad Ushuaia dalla fine del 1800 fino al 1947, quando fu chiusa da Peron. Durante    questi 50 anni di attività i deportati, sottoposti ad un durissimo regime carcerario, furono impegnati a costruire una serie di edifici civili e a disboscare le foreste per procurare legname per le ferrovie in costruzione sul territorio argentino, e senza saperlo diedero un grande contributo allo sviluppo di questa città.

Il pullman ci lascia proprio al penitenziario, costituito da una serie di corpi massicci che posano direttamente sulla roccia (era impossibile scavare e tentare la fuga!), il cui corpo principale oggi è trasformato in uno straordinario ed emozionante Museo del carcere e museo marittimo.

Nella prima parte ci sono le testimonianze  della vita dei deportati (tra la tragedia di tante vite e il kitch del negozio di souvenir che vende le tute di sacco a strisce gialle e blu come le divise degli ergastolani), ma la parte emozionante è quella dedicata al mare. Ci sono conservati i modelli delle navi delle grandi esplorazioni antartiche e tantissimi reperti e documenti originali. Tra quelle mura palpita vivo il ricordo di tanti miti che hanno accompagnato i sogni della mia adolescenza. Mi sono commossa in particolare davanti alle pagine originali del diario di Scott, con i suoi disegni della tenda trovata al polo Sud insieme alla bandiera norvegese piantata da Amundsen che lo aveva battuto dii soli pochi giorni, e davanti alle foto dell’ Endurance e della spedizione di Schakleton, a mio avviso il più carismatico avventuriero che sia mai esistito. Avevo letto libri su libri circa la sua incredibile spedizione, ma la luce che brilla negli occhi di quegli uomini nelle foto che ho visto oggi mi ha dato davvero una sensazione molto forte. Sono uscita un po’ turbata, giurando ancora una volta a me stessa che non si può abdicare dal vivere nell’inquietudine dell’imperfezione che spinge ad inseguire cose grandi,  dal superare il limite, dal ricercare il proprio destino nella nostalgia dell’altrove. Ho pianto, ma la pioggia mi aiutava a nasconderne i segni.

Ushuaia è  meta di turisti da tutto il mondo e si vede, ma è un turismo discreto e non deturpante, sono soprattutto giovani in cerca delle briciole della grande avventura che si affacciano a quella finestra senza       entrare, accontentandosi del trekking nei parchi naturali. I negozi di souvenir sono ovunque ma sono innocenti divagazioni, l’atmosfera è ancora straordinariamente integra ed emozionante.

Ci lanciamo, sull’immancabile centrale Via San Martin, nello shopping sfrenato di souvenir pacchianissimi, ma come si fa a resistere dal riportarsi indietro miriadi di oggetti con scritto “fin del mundo”?

I monumenti disseminati nella città non sono tanti ma sono tutti gradevoli ed evocativi.  Curiosa è la piramide realizzata per i 500 anni della scoperta dell’ America, con dentro dei cd con le testimonianze degli abitanti di Ushuaia e un anno di registrazione di tutti i programmi della rete televisiva nazionale, da aprirsi tra altri 500 anni, perchè la gente di allora possa avere uno spaccato della vita di oggi. Forse avrebbero potuto immaginare qualcosa di più vero che non i programmi televisivi per rappresentare un’epoca.

Nelle strade di Ushaia vivono liberi circa 20.000 cani, una città nella città! Sono dovunque ma sono buoni in una maniera impressionante, dormono tutto il giorno placidi o trotterellano pigri per la strada; mi sono quasi abituata a non averne paura. Nei giardini delle case crescono grandi fiori di colori vivissimi, tra cui spettano i tipici “lupinos”, che non ci si aspetterebbe di trovare in un clima così freddo.

Poi di corsa a visitare il ghiacciaio Martial, alle cui pendici siamo saliti con una funivia, mentre fioccava leggera una piacevolissima neve;.       in realtà non regge il confronto con i nostri ghiacciai alpini Per la cronaca, ho in testa un passamontagne con sopra un peluche di pinguino che è l’invidia di tutti i bambini che mi vedono, e un equipaggiamento da polo sud veramente professionale, così che nonostante siamo sotto zero sono caldissima.

istantanea-video-11Poi per ritornare abbiamo preso un taxi e ci ha incuriosito il buffo abbigliamento del taxista,  un vecchietto abbronzato, con i capelli lunghi e con un cappello da cui pendevano zampe di castoro, che ci ha raccontato che fa l’autista solo a tempo perso perchè lui è soprattutto un gran cacciatore di castori. Allora gli abbiamo chiesto se ci poteva fare da guida fino alla castorera e lui ha accettato. Qui è iniziata un’avventura. Siamo saliti nelle valli del monte Oliva, e la macchina si è addentrata per un sentierino sterrato dove non passava nessuno.  tra le rocce, il fango abbondante per le recenti piogge e per la deviazione dei fiumi prodotta dalle dighe dei castori, e i fitti alberi; quindi a piedi abbiamo attraversato con   il cuore in gola un km quadrato su cui si trova un allevamento di husky che d’inverno vengono addestrati per le slitte, e che ora erano liberi e abbaianti tutti intorno a noi. Mi sembrava di camminare su un asse di equilibrio su cui devi muoverti più in fretta possibile senza guardare a destra e a sinistra. Finito questo incubo siamo arrivati ad una capanna di caccia dove ci hanno offerto il mate caldo,  quindi  arrancando dietro al vecchietto che  indossava una maglietta nera con sulla schiena un enorme cadaverica  faccia di Marlyn Manson e saltellava come uno stambecco nel bosco, ci siamo inoltrati nella grande vallata spettrale, di alberi secchi  a causa delle radici fradice per l’acqua deviata dalle dighe dei castori o  abbattuti con un taglio netto che avrei giurato essere opera dii motoseghe, e che invece è frutto della rosicchiata dei micidiali animaletti che scorticano, mangiano e segano i tronchi e li trasportano con precisione ingegneristica a costruire dighe  nei fiumi per allargare il loro territorio e costruirci le tane; non siamo riusciti a vedere castori (nonostante da 40 coppie portate qui negli anni 50 siano diventati 50.000 esemplari che sono il flagello della regione) ma la loro opera era davvero impressionante da vedersi.

Il mio filmino oscillante nella foresta morta all’ inseguimento di Marlyn Manson ricordava vagamente la versione comica di “the Blair Witch Project”. Al ritorno non avevo quasi più  paura degli husky, in fondo se non mi avevano mangiata all’andata vuol dire che sono animali intelligenti. E poi sono proprio belli. Stasera dobbiamo farci belle: i gestori del Tango B&B hanno organizzato un concerto di tango in onore dei loro ospiti! Lui, ottimo musicista di fisarmonica ed anche autore dell’inno ufficiale di Ushuaia, ci suona tutti i pezzi più belli della storia del tango argentino, spiegandocene l’evoluzione, dai primi tristi canti che gli immigrati ballavano tra uomini, alla stagione d’oro della bell’epoque, alle glorie di Carlos Gardel, fino al New Tango commisto al jazz a decisamente più moderno. Quindi coinvolge gli ospiti in una lezione di ballo da cui ci salviamo solo spiegando che i fidanzati italiani sono molto gelosi.

PUERTO WILLIAMS (Chile)

Oggi navigazione lungo il canale di Beagle fino a Puerto Williams in Chile, l’ultimo avamposto umano prima dell’ Antartide,  dove vivono gli ultimi indigeni. Il mare era un  po’ agitato ed eravamo gli unici passeggeri ad avventurarci per quella destinazione che è del tutto fuori dai tradizionali circuiti turistici. Poichè mentre Monica stava saggiamente sotto coperta io mi ostinavo a stare a babordo a filmare lo spettacolare panorama del canale di Beagle che si stende tra le montagne innevate a picco sulla costa, ad un certo punto la barca è stata presa in pieno da due ondatone che mi hanno fatto letteralmente la doccia.

Puerto Williams non è un vero porto, siamo approdate su un barcone ancorato alla riva, dove è arrivato apposta per noi due un funzionario cileno in un incongruo elegantissimo gessato blu, che ci ha  pomposamente messo il visto cileno sul passaporto e poi è andato dentro a cambiarsi e a rimettersi l’abbigliamento sportivo.

Saltando di barca in barca siamo arrivate a terra, ci siamo guardate attorno e ci siamo rese conto di essere probabilmente gli unici turisti sull’isola. Negli anni ’40 Ushuaia e Puerto Williams dovevano avere una struttura abbastanza simile, ma poi Ushuaia è cresciuta esponenzialmente diventando una vera città, Puerto Williams, forse per la sua difficile accessibilità e  per la mancanza di un vero porto riparato dai venti si è ridotta a 1000 abitanti in tutto, ed è in gran parte presidio militare cileno per rivendicare la sovranità su Capo Horn, del cui comune Puerto Williams è fittiziamente frazione, nonostante vi sia separato da molte miglia di mare. Piccole casupole, l’asilo “piccoli coloni”, un unico spaccio alimentare, alcuni negozi di generi di prima necessità per i locali, l’indicazione dei sentieri che portano all’interno dell’isola, verso una zona selvaggia di grande interesse naturalistico.

L’unica cosa interessante  di Puerto WIlliams è  una dolcissima piccola  statua di una Madonna, ripescata in mare vicino a Capo Horn dal naufragio di qualche goletta, e venerata come la “Virgen de los loberos”, cioè dei mercanti di foche.

Abbiamo lasciato  quindi velocemente il paesino, addentrandoci nell’isola fino a raggiungere il luogo dove vive l’ultima comunità indigena degli Yamana, coloro che erano gli abitanti originari della terra del fuoco. Sono in via di estinzione e ne sono rimasti poco più che una dozzina, che vivono in ben poco pittoresche casette di lamiera che non hanno più niente delle originarie capanne. Purtroppo non si lasciano fotografare, ma hanno un aspetto molto particolare, un po’ come le tribù amazzoniche dei documentari.

istantanea-video-7Poiche’  ci dispiaceva un po’ non portarci via nessun ricordo, ci siamo fatte coraggio e abbiamo superato  il branco di cani di strada che dormivano sulle porte delle capanne  insieme ad alcuni maialini maculati tutti pelosi, e abbiamo bussato per chiedere se avessero qualche prodotto artigianale da vendere e con l’occasione abbiamo potuto fare loro alcune domande su come vivono.

Non avevano nulla da venderci, ma con un’infinita faccia tosta, siamo riuscite a farci dare delle barchette che avevano in casa, scavate nella corteggia del legno con le parti legate con baffo di balena, che abbiamo poi visto nel museo antropologico. Quando ce le ha viste il capitano della barca  ce le ha invidiate molto. Le considero il trofeo principale del mio viaggio e ne sono molto orgogliosa!

Nel porto tento di trovare una nave che si diriga a Capo Horn, il mito dei miti, il sogno di avventura per eccellenza, il punto dove nella perpetua tempesta si uniscono l’oceano atlantico e l’oceano pacifico. Sono disposta a qualunque cosa, anche a lavorare gratuitamente come mozzo per poter essere imbarcata in una nave che circumnavighi       Capo Horn, ma riesco solo a raccogliere alcuni indirizzi utili e a prendere dei contatti, per questa volta è impossibile, ma chissà che non possa tornarci un giorno, con un mese a disposizione e magari con dei compagni di avventura che sentano il fascino straordinario del mare alla fine del mondo.

Al ritorno il vento si era calmato e abbiamo avuto un’ottima traversata. Mi brillano gli occhi; un po’ di salsedine di avventura ora profuma i miei capelli.

USHUAIA- PARCO NAZIONALE DELLA TERRA DEL FUOCO

istantanea-video-14Abbiamo noleggiato un’auto e siamo   andate verso il Parco National de la Tierra del Fuego, la riserva naturale che si estende su un larghissimo territorio       a partire dai dintorni di Ushuaia. La particolarità è che c’ è contemporaneamente tutto, montagna, campagna, lago, mare.

Abbiamo lasciato la macchina alla fine della Ruta 3, la strada che percorre da nord a sud tutta l’argentina, e che

termina nel cuore del parco. Si arriva ad una minuscola stazione ferroviaria per prendere il Treno della Fin del Mundo. I carcerati della colonia penale ricevevano come premio di buona condotta ( è tutto dire!) la possibilità di andare a lavorare fuori per tagliare gli alberi in mezzo al gelo dell’ inverno patagonico.

Per questo era stata costruita una ferrovia che li portava in mezzo ai boschi e li riportava indietro; su questo percorso hanno ricostruito un trenino rosso turistico a vapore con gli interni tutti di legno, con la spiegazione multilingue e la musica, che si inerpica per i boschi in uno scenario naturale molto bello, per circa 30 minuti all’andata e altrettanti al ritorno, che in breve tempo è diventato una celeberrima attrazione che attira visitatori a centinaia ogni giorno.

Dal termine del percorso del trenino       si diramano tanti facili sentieri con panorami molto vari tra di loro., così, grazie anche alla splendida giornata di sole, abbiamo fatto tante belle passeggiate. Abbiamo visto l’arcipelago delle Cormoranes, isolotti verdissimi e minuscoli legati tra loro da dei ponticelli, su cui hanno fatto le tane tantissimi bei coniglietti.

Abbiamo rivisto le parti di bosco distrutte dai castori e le dighe da loro costruite, ma anche stavolta dei roditori neanche l’ombra (pare che per avere più chances sia necessario appostarsi al tramonto o all’alba).

Ad un certo punto abbiamo trovato sul sentiero di montagna tanti gusci di cozze, e abbiamo pensato a quanto fossero incivili quei turisti che sono andati a buttare gli avanzi proprio in mezzo a quella meraviglia; ma fatti pochi metri ci si è svelato il mistero: la montagna arriva direttamente al mare, abbiamo visto le cozze attaccate alla roccia e le alghe portate a riva che sii mescolavano con il sottobosco. La montagna a picco sul mare è spettacolare.

La giornata e’ trascorsa così fino a tardi in mezzo alla natura, poi al ritorno ad Ushuaia       un ultimo colpo di coda del divertimento della giornata: siamo andate, impolverate e spettinate dal vento, al Casinò dove  ci siamo poste l’ambizioso obiettivo di vincere ben 15 euro a testa, quanto serve a comprare due t-shirt, target centrato con il mio solito metodo da assennata formichina (gioco sempre su due dozzine così la probabilità di vincita è di 2/3 e la statistica sui grossi numeri è una scienza esatta, basta solo avere disponibilità di tempo e soldi perchè il risultato si realizzi); il segreto è tagliare la corda subito dopo       aver raggiunto la cifra prefissata senza subire il fascino del continuare il gioco fino ad essere spennati. Domani sera torneremo con l’obiettivo di vincere addirittura una lauta cena .

USHUAIA – LAGHI FAGNANO ED ESCONDIDO

istantanea-video-16Ultimo giorno di Ushaia. Oggi attraverso un’agenzia specializzata in viaggi-avventura abbiamo fatto una bellissima escursione nella zona dei laghi con la Land Rover. Abbiamo percorso una parte del tracciato che fu scelto per il Camel Trophy di alcuni anni fa. E’ incredibile che cosa riescono a fare i fuoristrada, non immaginavo mai che potessero raggiungere senza difficoltà  inclinazioni di 45 gradi e camminare nell’acqua dei fiumi. Peccato che fosse assolutamente impossibile fare delle riprese decenti, un po’ perchè ero troppo impegnata a tenermi, un po’ per le oscillazioni non gestibili della telecamera. . Quindi abbiamo fatto una bella passeggiata sulle rive dei laghi Escondido e Fagnano, circondati dalle alte montagne innevate che si specchiano sull’acqua, e poi nel bosco, dove abbiamo assaggiato i frutti di bosco locali, che però sono piuttosto asprigni, e abbiamo fatto un barbecue (sigh, mi sono dovuta accontentare di formaggio e insalata). Per rifarci però questa sera ci siamo concesse un degno commiato gastronomico da Ushuaia.

Al Casinò abbiamo ancora vinto, e racciumulato l’importo che ci serviva per pagarci la cena a base di Centolla Imperial, il granchio rosso gigante che è l’emblema culinario della Tierra del Fuego. Arrivate alla cifra preventivata non ci siamo trattenute e abbiamo esultato a gran voce. “e vai, stasera si cena!” tra gli sguardi schifati o compassionevoli dei giocatori professionisti.

istantanea-video-8Il granchio imperiale riservatoci dall’ottimo ristorante Tia Elvira pesa 2 kg, ma al grido di niente prigionieri, lo abbiamo fatto fuori senza pietà. Siamo pronte ad affrontare il trekking andino nella regione delle grandi montagne e dei ghiacciai!

One thought on “Patagonia e Terra del Fuoco: cieli e terre infinite

  1. Che meraviglia la Patagonia e la Fin del Mundo! Ho vissuto per alcuni mesi in Argentina ma non ho avuto modo di visitare il sud, spero al più presto di “rimediare”!

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