Dalla modernità della metropoli di San Paolo passo in un mondo senza tempo: Manaus è la fascinosa madre senza tempo di tutte le leggende e la foresta amazzonica è un microcosmo straordinario in cui vivere un’avventura autentica nella spietata bellezza della natura.
1° giorno
Febbre gialla, tifo, colera, epatite A, epatite B, tetano. Sono vaccinata contro tutto ciò che può esistere nell’immaginario di un viaggio nella jungla amazzonica, ed equipaggiata da manuale: pantaloni multitasche con cerniera per trasformarli in short ,stretti al polpaccio ed impregnati di repellente per mosquitos, camicie a maniche lunghe traspiranti e a rapida asciugatura anche loro impregnate, guanti in pelle, scarponi da trekking in goretex belli alti sulla caviglia con calzini traspiranti, cappello da apicultore con retina anti-mosquitos che si lega sul collo, bandana, zaino militare con zainetto tattico, camel back da tre litri d’acqua, malarone che però non voglio prendere a meno di una vera invasione di mosquitos, due diversi tipi di repellente per insetti perché consigliano di usarli in abbinata, pastiglie per depurare l’acqua dopo averla fatta bollire, macchina fotografica con custodia subacquea contro l’umidità e 10 pacchi di stilo per sopperire alla mancanza di corrente elettrica, torcia frontale, crema solare, amuchina, pattada sarda, moleskine ed altre amenità un po’ fantozziane, ma è così bello sognare la grande avventura! Il mio viaggio un po’ incosciente è stato preparato tutto su internet e sulle mappe in assoluta autonomia con grande cura, privilegiando il contatto con la natura incontaminata, informandoci sugli operatori locali che forniscono le migliori guide indigene, alternando i più noti hotel della regione all’inizio e alla fine del viaggio con trekking duro nella foresta, non facendomi mancare l’emozione del volo in idrovolante e della scalata agli alberi. Ora l’importante è staccare la spina dalle responsabilità e dai miei impegni di manager sotto costante pressione e concedermi l’immersione completa nel mio sogno. Le 11 ore di viaggio e i 5 fusi orari che mi separano da San Paolo riescono benissimo in questo intento, ed incomincio a divertirmi già sull’aeroplano, gustandomi “l’armata Brancaleone”, che mi predispone alla leggerezza del cuore con cui vanno prese tutte le avventure.
2° giorno
L’Alitalia mi ha perso il bagaglio, accuratamente preparato con tutto ciò che doveva servire per il trekking amazzonico e quindi difficile da ricomprare sull’istante, nonostante l’ottima copertura assicurativa dell’ American Express; in aggiunta tocca perdere un bel po’ di tempo in aeroporto per fare tutte le pratiche del caso e spiegare l’urgenza del recapito a Manaus il giorno dopo, in quanto successivamente non ci sarà modo di rintracciarmi; ho in qualche modo l’impressione che i brasiliani non siano proprio sveglissimi, sensazione che andrà accrescendosi nel corso del viaggio: il problema non è non capire le parole, ma lo sguardo perso nel vuoto di chi non si sforza minimamente di capire. Ad ogni modo, inutile angustiarsi, inizio a godermi un po’ di vacanza paulista. Un giorno è troppo poco per entrare nello spirito di S.Paolo, multietnica e colorata con i suoi 11 milioni di persone (eppure in un certo senso poco brasiliana fin nell’aspetto metropolitano del suo skyline), ma quasi troppo per bighellonare da turista sfaccendato, perché di attrazioni turistiche classiche ha ben poco, complici anche da un lato lo zaino pesante che sono costretta a portarmi dietro, e dall’altro la pioggia incessante. Dall’aeroporto al centro della città la strada è lunga ed il traffico è molto intenso, come si addice ad una città d’affari e di industria quale è S.Paolo, una grande Milano senza il Duomo; al contrario di quanto immaginavo, non vi sono auto nordamericane, ma molte europee, e tra di esse parecchie Fiat. Mi faccio lasciare dal taxi nella Praca da Sé, nucleo antico della città, dove sorge la Cattedrale Metropolitana da Sè, imponente chiesa neogotica più bella fuori che dentro, che mi colpisce soprattutto per uno strano ordine di preti canadesi, per lo più giovani e carini, vestiti in modo piuttosto fighetto, con gli stivali e una divisa bianca con simboli colorati e con cintura in vita che sembra paramilitare. Mi avvio attraverso la zona antica, non troppo degradata ma a dire il vero piuttosto anonima, verso il bel Teatro Municipale. Lungo il viale che porta al teatro sono sedute molte donne nere, con abiti colorati, che leggono il futuro nelle conchiglie, ma poiché mi sono resa subito conto di non capire niente di portoghese, non ho la tentazione di interrogare il destino; poco più in là c’è un meticcio vestito da donna e sdentato che riesce a fare smorfie degne di Jerry Louis e tiene banco con una scenetta comica che, a giudicare dalla folla che si è radunata, deve essere molto divertente; procedendo ancora, mi lascio tentare da una specie di sofficino di tapioca, riempito di cocco e crema di latte. Mi distribuiscono diversi volantini di sette cristiane mai sentite prima, che parlano della salvezza dell’anima e dell’importanza di abbracciare la fede. Mi diverto ad osservare la gente: un crogiuolo di razze perfettamente mescolate: bianchi biondissimi o mediterranei, ispanici, neri, meticci (alcuni dei quali di una bellezza davvero notevole), molti giapponesi, che sembrano convivere con grande naturalezza e armonia. Gli abitanti di S.Paolo, i paulistas, si sentono anche loro diversi dagli altri brasiliani. Poi via, in taxi verso l’Avenida Paulista, il cuore del quartiere dello shopping elegante per cui è famosa S.Paolo, ma è una delusione: molti grattaceli, palazzi di centri commerciali, e vetrine di negozi pretenziosi che però vendono tutti marchi occidentali ed in particolare italiani, a prezzi per niente convenienti; stessa cosa per l’elegante via Oscar Freire, alcune parallele più in là. Divertente da visitare è Libertade, il quartiere giapponese, dove persino le banche si sono adattate a mettere insegne a forma di pagoda; sembra davvero un piccolo angolo di oriente, con i negozi in stile e le numerose bancarelle pieni di souvenir giapponesi tradizionali, ristoranti di sushi, lampioncini rossi che adornano le strade. Mi faccio attirare da una specie di yogurteria giapponese self-service in cui si può riempire la tazza con i diversi gusti di frozen yogurt e gustarlo con gli ornamenti più strani; non rendendomi conto che viene venduto a peso, confeziono una squisita ma incongrua tazza grondante smarties e cocco da quasi 15 euro! Così la giornata trascorre rapida, e sono di nuovo sull’aereo, in direzione Manaus, dove atterro ormai a notte fonda e, scesa a terra, vengo investita da un’ondata di caldo con un grado di umidità tale che toglie il respiro: sembra di stare in un bagno turco. I taxi e anche le macchine comuni sono tutti con i vetri oscurati, per proteggersi un po’ dal sole, e viaggiano con l’aria condizionata a palla. Raggiungo l’ Hotel Tropical, il più famoso albergo di Manaus, che è un’attrazione di per sé, ha una piazzuola con negozi eleganti e di souvenir di ottima fattura, una grande piscina, l’idroscalo, uno zoo con pappagalli variopinti, vari tipi di scimmie, strani animali della foresta amazzonica che sembrano enormi topi incrociati con cinghiali, e persino una superba coppia di giaguari; percorro i lunghissimi e larghi corridoi in stile coloniale e mi sistemo nella stanza arredata con vecchi mobili di legno massiccio quasi nero tipici del luogo, poi crollo in un sonno quasi immediato, pregustando la grande avventura.
3° giorno
La spettacolare colazione dell’hotel mi predispone bene verso questa città. Manaus è la porta dell’Amazzonia, la città mitica che ha fatto da base alle esplorazioni della jungla, il torbido luogo d’incontro degli avventurieri e dei petroleros, la patria di Mister No, il porto franco più famoso del sudamerica. Purtroppo visitarla di domenica, con gran parte dei negozi chiusi, non le rende merito, ma dal mercato ci si rende subito conto della sua vitale e coloratissima confusione. Un poliziotto mi avverte subito di stare molto attenta nel girare nelle vie intorno al porto, ma francamente non noto pericoli molto maggiori di quelli che si corrono a Roma, e mi immergo tra la folla. La città è un grande mercato, ovunque ci sono tantissimi banchi di frutta tropicale di diversi colori accatastata, soprattutto banane, e vengono offerti frullati e macedonie, poi ci sono bancarelle di souvenir di tutti i tipi, di prodotti artigianali lavorati partendo dai materiali tipici della jungla. Mi lancio subito all’acquisto compulsivo di ricordini: un particolare coltello con manico e custodia di legno, che rappresenta una maschera tribale i cui denti sono mandibole di pirana, gli occhi e gli ornamenti semini rossi, mentre i lati sono coperti da pelo di qualche animale locale; alcuni pirana essiccati che continuano a fare una certa impressione con i loro dentini aguzzi rivolti verso l’interno; collane fatte di semi di tutti i colori e di squame di pesci predatori, uno strumento musicale etnico a percussione, sottopiatti di palma intrecciata, vaso indios di terracotta dipinta con i manici costituiti da due giaguari, ed altre amenità varie. Mangio al mercato un piatto di riso in bianco, farafa (una specie di pane grattugiato duro di manioca) e arrosticini di carne che io snobbo, accompagnati dall’assolutamente insulsa birra brasiliana; questo è il pranzo tipo che conosce ben poche varianti in amazzonia, e che mi fa pensare a come la cucina italiana sia assolutamente speciale nel mondo. Il monumento più importante di Manaus è il Teatro Amazonas, dove hanno luogo due famosi festival rispettivamente dell’opera e del cinema. Di fronte al teatro è un monumento a ringraziamento di coloro che decretarono per Manaus lo stato di porto franco, segnandone la rinascita dopo la crisi seguita alla decadenza del commercio del caucciù. La vita della città, così frenetica la mattina, si spegne quasi del tutto nel primo pomeriggio, quando è l’ora della siesta; chi può va a riposarsi a casa, diversi indios dormono anche per strada nelle loro bancarelle; io mi sposto verso la spiaggia di Punta Negra, il più famoso litorale del Rio delle Amazzoni; lungo la strada che costeggia la spiaggia bar e piccoli locali improvvisati offrono cibi semplici ai clienti che si affollano ai tavolini che danno sul mare, diffondendo nell’aria musica a tutto volume; sulla spiaggia lunga e bianca ma dalla riva tristemente sporca di rifiuti portati dal fiume, segno di un’incivilità umana inqualificabile, molti bambini giocano con gli aquiloni, e gruppi di locali prendono il sole; trovo le donne indie belle, anche se molte di loro hanno un addome molto prominente e sono un po’ basse di statura. Mentre mi attardo a passeggiare sulla spiaggia improvvisamente si addensa un nuvolone nero ed incominciano a scatenarsi fulmini nettissimi che squarciano il cielo facendo venir giù un fortissimo acquazzone; non mi resta che scappare di corsa, coperta dall’inutile k-way , verso il vicino hotel tropical; come tutte le precipitazioni tropicali, il temporale, nel giro di mezz’ora cessa così come era venuto, lasciando le strade allagate ed il cielo di nuovo azzurro. Ormai mi sono abituata al clima, e non soffro nemmeno più l’umidità, nonostante sia l’ unica in tutta la città ad essere vestita a maniche lunghe per seguire i consigli da manuale su come difendersi dai mosquitos, che a dire il vero qui non ci sono proprio.
4° giorno
Giornata interlocutoria, di preparazione alla partenza per la jungla. Dopo essere passata nell’ufficio di Amazon Riders, con cui ho concordato l’itinerario della spedizione, mi dirigo verso il porto di Manaus per navigare sul Rio Negro e quindi sul Rio delle Amazzoni fino al punto in cui mi addentrerò nella foresta. Il porto è uno spettacolo: è tutto un pullulare di gente con carichi in testa e nelle mani, che si aggira saltando tra i barconi in stile Fitzcarraldo tutti colorati e serrati l’uno all’altro. Attraverso altre barche raggiungo la mia e salpiamo; sul ponte superiore, come d’uso vengono appese le amache; l’amaca brasiliana è più comoda di quella messicana perché non è fatta a rete ma è un telo di stoffa resistente e molto avvolgente; il mio approccio è un po’ goffo, perché ho l’idea sbagliata che in amaca si possa dormire solo pancia all’aria, ma capisco presto che ci si può cullare in ogni posizione, basta sapersi equilibrare bene, e devo dire che non ho sofferto di mal di schiena per tutto il viaggio. Al contrario la cabina ha il vantaggio dell’aria condizionata e del bagno privato, ma è piuttosto spartana e preferisco utilizzarla solo per lo stretto tempo necessario. Alla partenza si perde un bel po’ di tempo con interminabili e flemmatiche soste per rifornimento di carburante, di viveri e d’acqua, ed un’ ulteriore sosta forzata è necessaria a causa di un violento temporale che si abbatte sul fiume, con un cielo plumbeo e fulmini micidiali ogni pochi secondi, così che appare altamente consigliabile attendere che il fronte piovoso si sposti altrove; poi si parte verso “l’incontro delle acque”, il punto in cui il Rio Negro incontra il Rio Solimoes ed insieme danno luogo al Rio delle Amazzoni; il Rio Negro è costituito da acque scure, più fredde e meno pescose ma anche meno infestate dai mosqitos, nel l Rio Solimoes invece scorrono acque chiare, calde e piene di pesci ma anche di insetti; infatti quasi tutti i resort sorgono sulle acque scure. La particolarità del luogo dell’ incontro delle acque è che i due fiumi, a causa della diversità di temperatura, non si mischiano subito, ma continuano a correre paralleli per diversi chilometri, per cui il Rio delle Amazzoni risulta costituito da una corsia bianca ed una scura, e lo spettacolo è di grande impatto. Con la guida scendiamo nei territori della comunità indigena Ipixuma diretti verso una zona paludosa, che nella stagione delle piogge si raggiunge solo attraverso piccole canoe, ma che ora è a portata di una breve camminata, per andare ad ammirare le ninfee Victoria Regia; stando solo attenti ai caimani, possiamo vedere le grandi foglie di oltre un metro galleggianti sull’acque sorrette dalle liane, mentre i fiori carnivori restano chiusi durante il giorno.
5° giorno
Invertiamo la rotta della barca e ci dirigiamo verso il Rio Negro, fino all’isola Camaleau, dove ci inoltriamo in affluenti secondari dove vengo invitata a cimentarmi nella pesca al Pirana. All’amo vengono attaccate delle esche con grossi pezzi di pollo o di pesce poco pregiato, e si lanciano quanto più lontano possibile, cercando di lanciare poi nelle vicinanze dell’esca un sasso per smuovere le acque ed attirare i pesci. I pirana non si fano certo pregare ed arrivano subito a tavola, il problema è che nella maggior parte dei casi staccano l’esca voracemente senza rimanere impigliati nell’amo; così un intero petto di pollo va via per pescare, nel corso di diverse ore, quattro piccoli pesci, che certo non costituiranno da soli la nostra cena. Come inizio di sopravvivenza andiamo piuttosto male. Meglio i grossi e squisiti pesci che le nostre guide si sono procurate durante una sosta per visitare una comunità di pescatori, dove mi diverto a tentare di tirar su un pescione di un metro tenuto all’uopo in una vasca e abbuffato dai visitatori. Quindi la barca fa rotta verso l’arcipelago delle isole Anavailhanes, una miriade di piccole isole che affiorano dalle acque del fiume, con belle spiagge bianche, verdi e lussureggianti di vegetazione e di fauna di tutti i tipi, tra cui spiccano bianchi uccelli simili a piccoli fenicotteri; si sentono i versi dei tucani, ma non riusciamo ad avvistarli. Qui il fiume appare davvero immenso, e il mio barcone piccolo piccolo in quella natura incontaminata. Vado a dormire molto presto, perché domani mi aspetta la jungla.
6° giorno
La mia guida è Raimundo, Rambo per i turisti, è un indigeno muscoloso e con i capelli dal taglio stile sergente dei marines che parla un po’ d’inglese e quando non capisce qualcosa dice “yes” con l’aria di chi ha capito tutto, peccato che questo non funzioni quando le domande sono a risposta aperta; è un tipo smaliziato, ha visto tanti turisti e ha quel pizzico di furbizia che serve a far lavorare in sua vece loro desiderosi di avventura; rimasto orfano da piccolo, si è fatto da solo, si aggiusta costruendo case, mobili, sfrutta i suoi trascorsi nell’esercito per far vivere agli stranieri pillole di esperienze di sopravvivenza nella jungla. Mi suscita impressioni contraddittorie: da un lato mi piace la sua scaltrezza, dall’altra mi dà fastidio essere presa per turista fessacchiotta. La vice-guida invece, assoldata da Raimundo con la scusa di fare numero in caso di incontro con giaguaro, si chiama Antonio, ha 57 anni e viene da un villaggio sulle sponde del Rio delle Amazzoni in Venezuela, ha un fisico minuto e asciutto e sul viso ha stampata la sua docilità ignorante. Da piccolo raccoglieva la gomma, si alzava di notte e andava nella foresta ad incidere gli alberi per ricavarne il succo prezioso, perché di giorno la gomma sale nella parte superiore del tronco; una volta ha anche incontrato un giaguaro ad un metro di distanza e si è salvato arrampicandosi sull’albero. Poi con la crisi del commercio della gomma si è riciclato come coltivatore di manioca e portatore che accompagna i turisti nella foresta, caricandosi tutti i pesi delle attrezzature e delle vivande.
Appunto, le vivande. In una visione eccessivamente romantica, mi aspettavo di interpretare da Robinson Crousè queste giornate nella jungla, sopravvivendo con la raccolta di radici e frutti tropicali, con le larve delle noci di cocco e col bottino della caccia con arco e frecce avvelenate e della pesca al piragna; per bere mi ero attrezzata con 3 litri di zainetto camel back che restituisce sapore di gomma all’acqua che potrebbe essere lasciata tranquillamente nelle bottigliette e trasportata nello zaino normale; non ci voleva in realtà molto a capire che con tali presupposti sarei morta di fame, e difatti il navigato Rambo aveva affidato alle spalle di Antonio pesce, pollo, riso, cipolle, farafa, frutta tropicale (compreso un pesante cocomero!) , e un bottiglione da 10 litri d’acqua. Così, bardata da esploratrice, zaino in spalla e Autan blu spruzzato ovunque, si parte per la spedizione. La vegetazione, all’inizio simile per quantità anche se diversa per qualità dai nostri boschi, si infittisce man mano che ci si allontana dal corso del fiume e che quindi non è soggetta ad allagamenti durante la stagione delle piogge, e il sentiero tracciato si fa via via più incerto. Cammino in fila indiana dietro Rambo che si fa strada tagliando foglie, rami, liane, radici e a volte anche piccoli tronchi con il suo machete affilato. L’umidità è fortissima, fa sudare e rende l’aria quasi irrespirabile (e pensare che è il polmone del mondo), i mosquitos se ne infischiano dell’Autan e pungono come dei dannati anche sotto i vestiti, ma pian piano ci si abitua a tutto , e lo spettacolo è grandioso. Avevo visto la jungla del Chapas, con gli immensi baobab, ma questa foresta è molto diversa. E’ viva e mutante, pulsante quasi. Gli alberi sono altissimi e fittissimi ma sottili, non sono mai antichi colossi, oscillano al vento che preannuncia la pioggia e vengono abbattuti dai fulmini, muoiono a volte per l’allagamento della stagione umida e rinascono con grande facilità grazie alla stessa acqua. Ci sono piante simili alle palme d’appartamento che però sono alte 6 metri, e mi dispiace quando Rambo le abbatte con un colpo secco di machete, anche se in realtà diventano nutrimento per nuove piante che sono già pronte a crescere al loro posto. Ci sono alberi parassiti che si appoggiano agli alti fusti delle altre piante, per poi inglobarli totalmente ed ucciderli succhiando la loro linfa, prendendo il loro posto, prima di essere aggrediti a loro volta da nuovi alberi parassiti. La jungla è il regno dell’armonia nelle disarmonie, dove la morte è funzionale alla vita, dove la precarietà di ogni singolo elemento è il presupposto del perdurare del sistema. Nascoste nel verde pulsano migliaia e migliaia di vite, nel più vario e vasto ecosistema esistente sulla terra; di fatto si avvertono solo i mosquitos, qualche meravigliosa farfalla grande e smagliante di colori vivissimi, ma si sentono mille suoni di uccelli che sono ovunque ma ben protetti ed invisibili all’occhio umano; Rambo li conosce bene, ci indica il suono del tucano, dei pappagalli, di un certo uccello piccolino che vive solo nella foresta primaria e che ha una voce potente da aquila e ci accompagna per tutto il cammino. Ogni tanto si vede qualche scimmia che scivola veloce da un ramo all’albero, ma la vegetazione è così fitta che è solo il guizzo di un’istante; spesso si sente il grugnire del cinghiale selvatico, ed il suo fruscio pesante tra la vegetazione; Rambo è sempre vigile quando lo sente, a volte i cinghiali sono in branchi e diventano pericolosi. Mi mostra le tane degli armadilli, sono ovunque e mi sembrano un numero spropositato, ma ci spiega che ogni armadillo ha moltissime tane diverse dove si accoppia con le armadille (più mandrilli che armadilli, penso io!). Poi ad un certo punto si sente un suono completamente diverso, seguito da un certo trambusto tra gli altri suoni, si tratta di un miagolio potente, profondo e rabbioso… è il sovrano della foresta, il giaguaro; non deve essere distante da noi e deve aver avvertito la nostra presenza. Il ruggito si ripete più volte, sempre più forte, e avvertiamo distintamente un odore simile a quello a me familiare di pipì di gatto, la marcatura odorosa forte dell’animale selvatico che segna il suo territorio; più in là troviamo le tracce del suo ultimo pasto, un uccello acciuffato e divorato di cui sono rimaste solo le povere piume sparse, e nemmeno un ossicino. Rambo scherza, mi dice che se dovesse attaccare il giaguaro bisogna salire su un albero e mi invita a fare le prove. Io, perfettamente integrata con la natura e con la legge di gravità che la regola, resto fermamente salda a terra, ma Antonio è una vera e propria scimmia e mi dà una dimostrazione di come l’età sia una mera convenzione occidentale per la pigrizia. Alle 16.30 arriviamo in uno spiazzato già altre volte utilizzato per accampamenti di fortuna ed iniziamo a preparare il nostro bivacco, raccogliendo legna ed accendendo un fuoco su cui viene arrostito il pollo, mentre vengono sistemate le amache tra gli alberi, coperte da un telone di plastica per l’eventualità di pioggia. Sono un po’ sconcertata di questa cena in orario anti-merenda, ma tra un preparativo e l’altro il tempo passa in fretta, e alle 18 improvvisamente cala il buio, e la foresta per una mezz’ora si accende di una quantità di suoni mai sentiti prima, quasi che il turno di giorno e quello di notte si diano appuntamento per salutarsi. Rambo intaglia nel legno sul momento tre cucchiaini per il riso, e stacca delle foglie giganti che ci servono da piatto, ed è bellissimo stare lì intorno al fuoco nel buio della foresta, a sentire raccontare le sue storie, e a mangiare il cibo cotto sulla legna e odoroso di fumo; io, vegetariana per scelta etica, senza scrupoli nella foresta ritorno animale carnivoro, perché in quel contesto è quella la mia natura, e trovo il sapore della carne affumicata particolarmente affascinante. Chiedo a Rambo se si è mai trovato seriamente in difficoltà nella jungla, mi racconta di una volta in cui fu ingaggiato per guidare una spedizione in Venezuela fino alla vetta di una nota montagna, e nel fare un lungo giro lungo il confine brasiliano per evitare di entrare nelle zone in cui imperversa la guerriglia venuezelana, si persero nel fitto della foresta, ritornando più volte sui loro passi, scalando le pendici di un monte diverso dalla loro meta originaria e trovandosi sbarrata la strada da uno strapiombo; qui il racconto si fa onirico, e non so quanto sia vero e quanto sia frutto dell’invenzione o dell’inconsapevole immaginazione, ma esausto e quasi rassegnato ad un tragico epilogo, Rambo dice di aver visto nel sonno una caverna, di essersi svegliato di colpo e di aver cercato tra la vegetazione fino a trovare l’imboccatura di un tunnel che scendeva giù nelle viscere della terra; si sono calati dentro nella semioscurità e lui ed un altro componente della spedizione si sono feriti, ma finalmente hanno visto la luce dell’uscita, riuscendo a ridiscendere dal monte. Hanno vagato ancora nella foresta, portando a spalla il compagno di viaggio più gravemente infermo, fino a giungere a vedere a distanza un’installazione militare. Rambo si era avvicinato con cautela sperando che si trattasse dell’esercito brasiliano, ed aveva iniziato a correre verso la salvezza gridando “siamo brasiliani, siamo brasiliani”; erano stati accolti con gran festa, perché da 45 giorni la spedizione era ricercata come dispersa. Io do un’occhiata alla foresta buia e compatta intorno a noi. Speriamo bene che certi racconti siano un po’ romanzati e che Rambo conosca bene l’itinerario che intende farci seguire. Dopo cena ci alziamo dai tronchi dove siamo seduti e Antonio senza fare una piega mi fa vedere che proprio dietro di noi c’è la tana di una simpatica tarantola. Con un filo d’erba stuzzica un po’ il buco e ne esce un ragnone peloso e marrone grande quanto una mano. Rambo mi spiega che se morde una tarantola si vede immediatamente buio per tre o quattro ore, ma ci si può salvare con una particolare medicina che si estrae dalla corteccia degli alberi.
A lui è successo una volta. Nella foresta, dice, ci si deve guardare soprattutto dalle tarantole, dagli scorpioni e dai serpenti. Gli scorpioni sono tanto più cattivi quanto più piccoli, e si annidano in modo infido al caldo, così che mi consiglia di scuotere bene gli scarponi la mattina prima di rimetterceli. Quanto ai serpenti, se dovessimo venire morsi, niente tagli o succhiotti o lacci emostatici, solo un’energica pulizia della ferita col sapone e via di corsa verso l’ospedale, ci sono circa 5 ore di tempo prima che il morso diventi fatale. Del morso del giaguaro non parla, non è previsto fortunatamente. Dopo questi racconti incoraggianti e prima di andare a dormire, io dovrei andare alla toilette (peraltro non sono ancora perfettamente adattata al cibo locale e l’intestino ha qualche problemino) e mi inoltro nel buio per appartarmi tra gli alberi un po’ lontana dall’accampamento, con un certo timore reverenziale nei confronti delle presenze nascoste della jungla, e scelgo delle foglie che mi sembrano innocue, dopo aver verificato che non vi siano sopra bruchi velenosi dai colori improbabili; i mosquitos bastardi approfittano anche di questa velocissima calata di braghe per fare uno spuntino. Io, di solito impenitente nottambula, mi stendo alle 19 sull’ amaca per dormire ed inizio a leggere il libro di Kundera che si rivela invece provvidenziale e particolarmente suggestivo perché è l’unico mio legame con la “mia” civiltà, la “mia” filosofia, le “mie” paure e le ”mie” pulsioni, in mezzo alla natura che disarma ogni civiltà, e forse anche ogni filosofia e ogni paura. Il fuoco crepita a distanza e pian piano muore, lasciandomi nel buio assoluto. Niente stelle, niente luna, addirittura niente cielo, coperto dalle cime degli alberi. Incredibilmente, e non certo per colpa del libro, cullata dai suoni della foresta e dondolata dall’ amaca che risulta estremamente comoda, il sonno arriva prestissimo, pesante e senza sogni, e mi risveglio solo all’alba, alle 5, salutata dal trambusto del nuovo cambio turno della natura.
7° giorno
Colazione a base di frutta tropicale, si smonta il campo, zaini in spalla e via, prosegue il cammino nella jungla. La foresta primaria è un’enorme farmacia, profumeria, drogheria naturale, e gli indios che vivono in simbiosi con quella natura hanno saputo coglierne tutti i segreti e sfruttarli per la loro sopravvivenza. Per me gli alberi si assomigliano tutti, per loro sono tutti unici, ed in effetti anche solo a pensare alla varietà di legname ci sono colori chiari, scuri, verdi, rossi, blu, violetti. Tra tutti troneggia un grande albero che arriva sino a 60 metri di altezza, che è considerato la dimora degli spiriti, a cui chi si avventura nella foresta lascia qualche regalo o qualche offerta per poter ritrovare la strada di casa; scherzosamente la mia guida definisce il telefono della jungla, perché percosso rimbomba a distanza, ed esistono segnali convenzionali simili all’alfabeto morse per comunicare. Ogni tanto Rambo taglia un pezzo di corteccia di qualche albero e mi fa sentire odori e profumi diversi, spiegandomi quale utilizzo medico o di altra natura se ne può fare: c’è un rimedio per la prostata, uno per i reumatismi, per la fertilità, per la gastrite, per il morso di tarantola o scorpione. C’è un liquido biancastro che sgorga dall’incisione di un particolare albero e sa di latte (Antonio è molto rispettoso, e dopo aver preso la quantità di liquido che serve è sempre attento a tamponare il buco con un po’ di terra), c’è un altro liquido che è il plasma dei monitor, c’è una radice velenosa che viene usata per intingere nel suo succo le frecce per addormentare le prede per 15 minuti, c’è una polverina amarognola grattata dalla corteccia di un albero che viene sciolta nell’acqua per fare la “birra della jungla”. Rambo appoggia la mano su di un formicaio e lascia che le formiche a centinaia si posino sulla sua mano. Quando la scuote, sulla mano c’è un liquido resinoso e profumato che è un ottimo repellente per gli insetti, mi spiega. Un altro albero dà la “carta della jungla”: la parte interna della corteccia rossastra si lascia essiccare al sole per tre giorni e può essere sfogliata in strati sottilissimi, adatti a scriverci sopra o ad arrotolarci dentro il tabacco. Antonio ce ne dà una dimostrazione facendosi una sigaretta con un tabacco locale fortissimo, che l’indios fuma aspirandolo a pieni polmoni senza fare una piega. C’è una liana che recisa a metà dona in gran quantità acqua purissima, assorbita dal terreno e depurata dal legno che fa da filtro, e che costituisce una fonte di sopravvivenza per coloro che si avventurano nella foresta, purchè non ci si confonda con un tipo di liana simile, che aggiunge all’acqua un potente veleno. Infine c’è il famoso albero della gomma, da cui si ricava quella che un tempo fu la ricchezza dell’Amazzonia, che aveva un valore pari all’oro o ai diamanti; poi il seme dell’albero della gomma fu rubato e importato in Malesia, dove a causa del clima particolarmente favorevole diede raccolti molto più abbondanti; l’Amazzonia sprofondò nell’oblio fino a quando Manaus fu dichiarato porto franco ed iniziò una nuova era di splendore commerciale. Per raccogliere la gomma si praticano sul tronco alcuni tagli diagonali a cuneo verso il basso, e si lascia un raccoglitore al di sotto di essi; si possono fare 15 litri di liquido biancastro che vengono poi scaldati e solidificati diventando circa 6kg di gomma. Mentre mi attardo ad ascoltare estasiata queste spiegazioni, si addensano su di noi i nuvoloni neri del temporale. Così quando alle 10 di mattina Rambo trova un posto adatto e decide di accamparsi per pranzare (ebbene sì!) come una sprovveduta protesto che non sono ancora stanca e che è un peccato sprecare tempo così; in realtà nel giro di pochi minuti le cime degli alberi iniziano ad oscillare al vento e subito dopo si abbatte su di noi un vero e proprio alluvione e tra fiumi d’acqua, saette vicinissime e fragorosi tuoni abbiamo solo il tempo di riparare i bagagli sotto al telone di plastica che è stato montato ad improvvisata tenda, che si scatena il finimondo. Rambo mi raccomanda di stare vicina agli alberi grandi in direzione opposta al vento, in maniera che se gli alberi piccoli dovessero essere abbattuti quelli grandi facciano da barriera. Io decido di farmi una doccia con tanto di camicia (i ricambi incominciano a scarseggiare) e mi lavo con l’acqua piovana; quella che si deposita sul telone di plastica viene raccolta nelle bottiglie, non si butta niente. Antonio non si lava, e continuerà a non lavarsi per tutta la durata della spedizione. Finito il temporale si riprende la marcia. Rambo mi costruisce un giavellotto con la dritta e leggera canna di una particolare palma, affilandone la punta col machete e bilanciandola con delle foglie poste all’altra estremità; il tentativo di lancio mette ancora una volta in evidenza le mie scarse capacità sportive, ma tengo con me la lancia che è un ottimo bastone per bilanciarmi nel cammino piuttosto accidentato. In effetti il terreno ora incomincia anche ad essere in dislivello e si sale e si scende continuamente; le due nozioni di orientamento che senza bussola e altimetro di solito riesco ad applicare qui sono del tutto inefficaci. Poiché non si vede il sole, coperto dalle cime degli alberi, è impossibile individuare i punti cardinali attraverso la bisettrice tra il sole posto a mezzogiorno e la lancetta delle ore. Ed altresì la presenza del muschio sul tronco degli alberi non è così netta a sud, per lo stesso motivo. Quindi, l’unico metodo applicabile resta la fiducia nella guida, che però ad un certo punto si fa nervosa e non è più tanto sicura dell’orientamento; io penso a ciò che mi ha raccontato del Venezuela e comincio ad avere qualche timore e qualche rimorso per non aver portato il GPS. Così incomincia una lunga marcia a passo più serrato per paura che cali la sera, a volte Antonio si distanzia dalla colonna per esplorare il terreno circostante e vedere se trova qualche luogo conosciuto; mi ritrovo una formica gigante incollata alla mia coscia che mi succhia il sangue e non vuole staccarsi, un altro insettaccio mi ha spolpato la caviglia e si è infilato dentro ai pantaloni, la marcia zavorrata sotto l’afa non mi crea nessun problema di resistenza ma non ho potenza per andare veloce, e guardo con invidia le guide belle fresche con il loro carico doppio. Ad ogni modo, dopo aver decuplicato il cammino, la strada viene ritrovata; se si sia trattato di un’emozione per turisti o di una vera defayance della guida non lo saprò mai. Sono le 4 di pomeriggio e si arriva ad un luogo delizioso dove si staglia una cascatella su di un affluente del Rio Negro, dove è possibile fare il bagno cullati da una magnifico idromassaggio naturale. Ormai le acque scure non mi fanno più impressione, mi tuffo subito e mi faccio persino immortalare dalla telecamera tutta arruffata ed esausta, mentre imito Anita Hackbert nella Fontana di Trevi. Laviamo accuratamente la roba e la stendiamo ad asciugare. Antonio continua imperterrito a rifuggire l’acqua. Cena a base di barbecue di ottimo pesce, ma con l’aggiunta di farafa e frutta al petrolio (perché una boccetta di petrolio di Rambo ha perso dal tappo e ha inondato tutto). Si montano le amache e anche oggi alle 6, dopo un po’ di lettura, tutti a nanna. Fa solo molto più freddo della notte precedente a causa della vicinanza con l’acqua e della mancata protezione degli alberi sul lato fiume, per cui mi infilo il k-way e mi avvolgo stretta stretta nel telo dell’amaca.
8° giorno
Sveglia all’alba. I vestiti stesi ad asciugare sono più bagnati del giorno prima e per di più puzzano. Puzzano perché con questa umidità sono impregnati di sudore e quest’acqua scivolosa non lava bene, puzzano perché sono stati vicino al fumo proveniente dal barbecue di pesce, puzzano perchè vengono lavati e poi conservati negli zaini –anch’essi puzzolenti – senza avere tempo di asciugare. In realtà nonostante i bagni inizio a rendermi conto di puzzare anche io; sto acquisendo l’odore di animale selvatico come l’armadillo o il giaguaro, sto diventando parte della jungla selvaggia, non riuscirò più a togliermi questo umore di dosso! Oggi dobbiamo chiudere l’anello e tornare alla base, quindi il cammino è lungo e tosto. Per non perdersi di nuovo Rambo lascia dei segni sui tronchi degli alberi e sbarra con i rami divelti le vie laterali che potrebbero confondersi con il sentiero. Durante la sosta mi insegna ad intrecciare la palma e a farne coroncine o a tessere superfici più ampie. Si sceglie una di quelle piante simili alle kenzie ma molto più alte, si preleva la foglia centrale ancora chiusa che sembra una canna, si scuote e si apre tutto il fogliame. Quindi si piegano le foglie di un lato tutte al di sopra del bastone centrale, quelle dell’altro lato al di sotto ma sempre dalla stessa parte, e si tessono facendole passare sopra all’una e sotto a quella successiva, ripiegandole poi all’indietro al termine dell’intreccio. Quando la foglia si secca, il lavoro è robustissimo ed indistruttibile. Rambo mi costruisce anche una cerbottana, svuotando una canna, legandola con fibra tratta dalla corteccia e resistente più di una corda da alpinismo ad un altro legno che funge da porta frecce, che vengono fatte con le spine lunghissime di un altro albero bilanciate da piume di uccello. Sono ammirata dell’abilità di Rambo, lui racconta che ama vivere nella jungla, e che quando torna a casa sua è sempre preso da un’inquietudine che nasce dal desiderio di tornare nella natura, così che pensa un giorno di ritirarsi in una capanna ai margini della foresta. Nel pomeriggio finalmente la foresta si dirada, fino a quando si apre in una sorta di vallata, ci vengono incontro i cani e ci scortano al villaggio di Antonio, che mi ospita a casa sua per il pasto (alle 3 di pomeriggio ormai non capisco più se si tratta del pranzo o della cena, scopro poi essere la cena). Ancora una volta le donne della casa mangiano dopo aver servito gli altri, eppure il loro modo di fare è molto fiero ed imperioso, sembrerebbe dominare un modello matriarcale. Si affaccia alla porta il padre di Antonio, sordo e sdentato ma novantacinquenne; durante il pasto entrano ed escono dalle porte poste sui due lati della casa tante persone, per lo più giovani e bambini, come se niente fosse, non esiste un senso della proprietà chiusa di una famiglia mononucleare, il senso della comunità del villaggio è fortissimo. La casa di legno è poverissima, c’è una cucina e sala da pranzo, in cui Antonio, nonostante la presenza di sedie, ama stare per terra con le gambe incrociate anche per consumare il pasto; c’è un minuscolo soggiorno con un divano davanti ad una televisione anni ’70 e tante bambole tipo barbie vestite con lunghi abiti di pizzo; tutte le famiglie povere hanno una particolare predilezione per quelle orrende bambole da divano riccamente vestite; infine c’è una piccola stanza da letto che contiene un materasso sudicio e puzzolente, che mi viene generosamente messo a disposizione. Con la scusa di non disturbarli troppo e di godermi ancora una notte immersa nella natura chiedo di poter stendere la mia amaca fuori, nel grande sterrato che guarda verso il Rio delle Amazzoni. Chiedo invece un’altra cortesia, chissà se per caso hanno un caricabatterie da cellulare compatibile con il mio; sono confidente, perchè uno dei miei tre è un pezzo antidiluviano, ma scopro che loro hanno solo l’ultimo modello, la tecnologia ormai non ha proprio più confini, ma mi portano comunque una decina di cavi diversi di vecchi cellulari tra cui ce n’è uno adatto a me; così non appena viene acceso il gruppo elettrogeno che funziona al calar della luce scopro che in tre giorni di isolamento dalla “civiltà” in ufficio è successo di tutto e mi sono arrivati 140 messaggi; decido di rispegnere il cellulare con buona pace di tutti. Andiamo a visitare la piantagione di manioca, che è un elemento importantissimo in un’economia di sussistenza come quella di queste regioni, perché è molto facile da coltivare anche nell’alternanza di periodi secchi a periodi umidi, e la sua radice è semplice da conservare essiccata o lavorata in farina di tapioca; le piantine vengono seminate e poi raccolte quando arrivano a circa 2 metri di altezza, dopo un ano e mezzo; quella che si mangia è la radice, che però di per sè sarebbe fortemente velenosa ed ha bisogno di una lunga lavorazione, che consiste nella macerazione in acqua per eliminare gli agenti cianogeni, e per separare la fecola detta tapioca; noto come contenitori per lavorare la tapioca dei grandi gusci di protettissima tartaruga del Rio delle Amazzoni; ma gli indios sono parte di quel sistema, e possono permetterselo. Prima di andare a dormire, tutta la famiglia si riunisce davanti alla televisione a guardare le telenovelas – tutte, una di seguito all’altra – con grande partecipazione che sfiora il tifo da stadio quando arriva il bacio tra i protagonisti, così sospirato per tante puntate. Non ho proprio sonno, e mi spingo con la torcia fino alla spiaggia, dove vedo saltellare delle curiose piccole ranocchie, e mi ricordo che qui vivono le rane dal cui liquido secreto dal dorso si ricava il curaro, il potente veleno mortale con cui si intingono le frecce, e gioco a strofinare un bastoncino sulla loro schiena finchè non emettono il liquido, e poi lo avvicino alla bocca del ranocchio per vedere se è autoimmune; penso che se queste ranocchie amoreggiano saltandosi sulle schiene, probabilmente non sono sensibili al loro veleno; gioco e pensieri sono abbastanza demenziali, ma questo totale abbandono della gravitas quotidiana è il bello di stare dall’altra parte della terra. Milan Kundera mi accompagna verso il sonno anche questa sera, ma senza i risultati miracolosi delle sere precedenti. Fa un freddo cane, a causa delle correnti che provengono direttamente dai larghi spazi del Rio delle Amazzoni. Le provo tutte, tento di alzare teloni frangivento a farmi da barriera protettiva, mi insacco come un salame nell’amaca con il rischio di precipitare…alle 3 di notte, poco prima dell’alba, mi dichiaro sconfitta e vado a bussare a Canossa, cioè alla porta di casa di Antonio, per finire sul materassino lercio, puzzolente e rannicchiata nelle lenzuola per togliermi un po’ di freddo dalle ossa. E riesco anche a dormire.
9° giorno
Si riprende la navigazione . Scopro solo ora che c’è stato un cambio di programma ed il mio battello se ne è andato, insieme alla roba che avevo lasciato su consiglio di Rambo in cabina. Quando gli chiedo come fare a recuperare le nostre cose, lui risponde sì. Chiaramente non capisce le domande. Allora mi arrabbio; D’accordo l’adattabilità, ma qui si tratta di non essere presi per cretini. Così mi viene promesso che le cose verranno recuperate da Antonio il giorno dopo; prendo per buona la promessa e lasciamo il villaggio a bordo di una piccola barchetta di legno verde che imbarca acqua, con un motore con un lungo rinvio adatto ai fondali poco profondi che ogni tanto si ingolfa e va fatto ripartire. Siamo piccoli piccoli nel Rio delle Amazzoni che è davvero imponente. L’acqua è placida, increspata solo dalla scia della nostra barca e dai tuffi dei pesci che numerosissimi guizzano fuori dall’acqua e si rituffano dentro, magari spinti dalla presenza di un predatore invisibile. Un pesce fa un guizzo da una parte all’altra della barca, un altro sbaglia mira e ci si suicida nello scafo, buono per il pasto dei delfini che dobbiamo andare a trovare. Navighiamo tutto il giorno, ma non è pesante né noioso, la grandiosità della natura riempie gli occhi e il cuore. A pranzo facciamo sosta in un barcone galleggiante ancorato alle sponde del Rio. Un gruppo di donne è intento a confezionare variopinte collane di semi, di animaletti intagliati nel legno, di squame di pesce predatore (così dure che vengono usate anche da limette per le unghie), di piume di uccello, e a smaltarsi le unghie, un ragazzo indio con i capelli ossigenati dalla forma vagamente punk è appena ritornato con la barca dalla scuola, chissà dove. Due coloratissimi pappagalli sul bordo del barcone amoreggiano e poi discutono animatamente, per poi tornare a darsi bacetti e spulciarsi, inseparabili. Il bagno costringe all’apnea: si tratta di una cabina contenente un buco sul pavimento, che però invece di dare sul fiume dà sui pali di legno che sostengono la baracca, così che gli effluvi degli escrementi che si adagiano sul legno e lo permeano risalgono su, costringendo all’apnea. Il pranzo è a base di tanti tipi di pesce diversi e tutti freschissimi e deliziosi. Riprendiamo la navigazione fino alla riserva naturale di pertinenza dell’Amazon Tower Lodge, dove si trovano i delfini rosa; le guide mi avevano sconsigliato questa sistemazione perché un po’ inautentica, una sorta di Disneyland dell’Amazzonia, tuttavia il territorio intorno è veramente affascinante; niente bagno con i delfini, però, perché vengo messa in guardia sulla presenza di un branco di 6000 pirana aggressivi che alcune settimane fa hanno malamente morso un turista; l’unica possibilità è tornare domani mattina presto, con le acque più fredde, pare che i pirana siano meno feroci la mattina. Meglio andare a sistemarmi subito nel camping “Cayman” e prepararmi per la spedizione notturna alla ricerca dei caimani. Le capanne del Cayman sono tutte costruite con legno ed il tetto a cupola è fatto con le foglie di palma accatastate sapientemente l’una sull’altra tanto che quando si scatenano le piogge tropicali non penetra neanche una goccia all’interno, e per di più la temperatura risulta abbastanza gradevole; c’è una doccia gelata da fare con la lampadina in testa perché manca l’elettricità, ma la pulizia che si recupera con la doccia si perde subito dopo sul materasso.
Si riparte per andare ad avvistare i caimani che di notte si riposano numerosi sulle rive di uno stretto canale; i loro occhi scintillano fluorescenti nel buio anche a grande distanza; sono tutti esemplari abbastanza piccoli, intorno al metro di lunghezza, e se si spaventano corrono ad inabissarsi nell’acqua. Tuttavia si sa che ci sono caimani di 6-7 metri, che hanno ucciso e divorato persone. Rambo con un guizzo felino scatta fuori dalla barca ed afferra tra le braccia un caimano, serrando con una mano la mascella e le zampe anteriori, con l’altra tenendo ferma la coda dell’animale tenuto in verticale; prima lo accarezzo, l’effetto è, come era intuibile, quello di una borsetta di coccodrillo pulsante, piuttosto gradevole per la verità; poi prendo confidenza e serro nelle mie mani le mascelle del caimano per un’indimenticabile foto ricordo. Il malcapitato viene quindi lasciato andare e corre a rifugiarsi nel fiume. Al ritorno il motore della barca cede, ed il percorso dura diverse ore, tra tentativi di farlo ripartire e le remate di Rambo; questo imprevisto è però l’occasione per immergersi nel silenzio assoluto della natura e osservare la meraviglia del firmamento dell’altro emisfero.
10° giorno
I bagagli non sono arrivati, Antonio è tornato a casa sua, e Rambo dice yes. Pare che me li facciano trovare a mezzogiorno al nostro arrivo a Manaus. Il motore della barchetta è stato aggiustato alla meglio e noi torniamo sulle nostre orme di ieri per tentare di avvistare i delfini. Stanno sott’acqua moltissimo tempo prima di dover riemergere per respirare, ed il loro guizzo è così improvviso che non riesco a riprenderli con la telecamera. Ma poi – che emozione! – queste stupende creature al nostro richiamo emergono dall’acqua e si avvicinano saltando per prendere il pesce dalle nostre mani. Sono delfini rosa, hanno il muso rosato molto più lungo di quello dei delfini normali, su cui è quasi disegnata un profondo sorriso; trasmettono intelligenza, mitezza e serenità, tre virtù che è bello veder procedere insieme. Vorrei tanto tuffarmi e fare il bagno con loro (che comunque sono di una stazza notevole e con una pinnata possono rigirare una persona), ma non posso permettermi di bagnare gli ultimi indumenti che mi sono rimasti senza ragionevole certezza di ritrovare quelli rimasti sul battello, e così mi limito ad accarezzarne velocemente la pelle mentre saltano. Salutati i delfini, ci dirigiamo verso il luogo dove verremo prelevati da un’auto che ci attende per riportarci via terra a Manaus. Ma non abbiamo fatto i conti con il basso livello delle acque e con la barca decrepita; il nostro approdo è costituito da una lunga e bellissima spiaggia fluviale bianca, ma dalla terraferma ci separa un curioso tratto di fiume dal fondale bassissimo su cui è cresciuta un’erba di un verde straordinariamente brillante che affiora dall’acqua, simile allo spettacolo di una risaia; non c’è altro modo che togliersi gli scarponi e arrotolarsi i pantaloni sin sopra alle cosce, mettersi lo zaino in spalla e procedere nell’acqua, affondando i pedi nel fango e tirandosi dietro la barca, quindi, arrivati sulla spiaggia ci aspetta una camminata sotto il sole di diversi km, e finalmente, fradici di sudore, troviamo il nostro autista che si gode una bibita gelata ed iniziamo il nostro ritorno a Manaus. Il paesaggio del territorio che attraversiamo in auto cambia completamente: la rossa strada sterrata si dipana attraverso una foresta sempre più rada, disboscata dagli indios stessi per lasciare il posto alle piantagioni di Manioca, velocemente e sempre più in profondità. Gli alberi vengono bruciati per fertilizzare il terreno che verrà usato per le piantagioni, ed è un fenomeno in rapida espansione, qua e là si vedono fuochi accesi per disboscare, e case in costruzione; è una ferita aperta sull’ultimo grande polmone del mondo, certo non paragonabile allo scempio compiuto dai petroleros e dai mercanti di legname, o dalle multinazionali dell’allevamento bovino, ma è un altro contributo alla progressiva distruzione di un insostituibile patrimonio dell’umanità. Ad un’affollata e variopinta stazione di imbarco, tra banchi di pesce e venditori di banane fritte, si lascia l’auto e sul battello regionale stracolmo si attraversa il fiume per giungere a Manaus. I miei bagagli sono ancora chissà dove, mi giurano che me li faranno portare stasera presso la successiva tappa del viaggio. Saluto Rambo e mi faccio lasciare al Tropical Hotel, dove mi attende l’idrovolante che con volo privato sorvolerà la jungla e mi porterà al Juma Lodge, il resort di lusso che ho scelto per riposarmi negli ultimi due giorni di viaggio. Quanto mi piacerebbe essere per un momento al posto del pilota che sembra uscito dal fumetto di Mister No, per poter portare quel bellissimo Cessna librandomi sulla foresta, ma le poche lezioni romane di volo non mi permettono nemmeno di avere il coraggio di chiedergli di tenere i comandi per un po’; tra l’altro l’aereo non è ad ala bassa come quelli su cui ho volato all’aeroclub, e la visuale esterna del pilota è molto peggiore. Il rullaggio ed il decollo sul fiume sono molto lunghi, mentre il volo dura poco più di mezz’ora, in cui si domina dall’alto lo spettacolo del Rio delle Amazzoni e dei suoi canali che serpeggiano nel verde incontaminato della jungla, interrotto ahimè da molte zone disboscate che si notano chiaramente. La manovra di atterraggio sul pelo dell’acqua è perfetta, con tanto di parcheggio a pochi centimetri dalla riva. La mia sistemazione è costituita da un bungalow palafitta a venti metri d’altezza sul lago, tra le cime degli alberi, unito ad un’altra ventina di palafitte collegate da passerelle aeree molto suggestive. L’interno è ben curato, con un letto pulito, un ventilatore, un bagno ed una veranda con amaca. Confino il mio zaino appestato sulla veranda e finalmente provo la gioia di lavarmi in maniera normale. Nonostante il lodge sia quanto di meglio (e di più caro) esista nell’amazzonia brasiliana, ed il suo programma di escursioni sia molto curato, mi guardo intorno e vedendo la tipologia degli ospiti mi rendo subito conto che non posso certo aspettarmi le emozioni di questi giorni di pura avventura. La passeggiata guidata nella foresta è uno spettacolo solo per l’abbigliamento di coloro che sono con noi: due grassi vecchi americani, lui con camicia hawayana e bandana in testa, lei con i pantaloncini bianchi e i tacchetti, una coppia di brasiliani, lei con gli zoccoletti e lui con l’aria perennemente incavolata e assente di chi sta lì per caso, due uomini francesi di mezz’età vestiti da esploratori in un safari con coltello alla cintola, ed altri tedeschi, canadesi, argentini, variamente assortiti. Tutti lanciano un grido di orrore quando mangio la grassa larva che vive nella noce di cocco che si erano passati di mano con schifo; è nutriente e buonissima ed essendo vissuta sempre e solo nel cocco, sa di cocco, un po’ come la pajata sa di latte. D’altra parte se non si prova tutto, se non si sperimenta, non si tocca con mano, non si assaggia, non si morde la vita, che gusto c’è?
11° giorno
Il lodge è frequentato da una coppia di deliziosi macachi, Karina e Jackie, che vivono liberi tra gli alberi della jungla ma vengono a mangiare qui e a giocare con i turisti. Non a caso si dice curiosi come scimmie: Karina e Jackie vengono in braccio, si fanno coccolare, ma vorrebbero prendersi la mia macchina fotografica, sgraffignarmi la collana, infilarsi nel mio zaino per vedere cosa c’è dentro. Sono in perenne movimento, si tengono con i piedi , con le mani, ma soprattutto con una straordinaria coda prensile che avvolgono intorno al mio braccio per dondolare a testa in giù. A guardarli negli occhi, ad accarezzare la loro testolina o a tenerli per le manine, sembrano proprio bambini. Jackie ha una particolare predilezione per me, forse sente il mio amore per gli animali, e non mi molla più, ma se lo stringo in braccio mi morde con grande delicatezza; ogni volta che li incontro Jackie si libera dagli altri turisti e e corre da me. Le scimmie sono anche furbe e per rubare una banana ad un coloratissimo pappagallo che stava mangiando tranquillo sul suo trespolo, Karina ha messo in atto una strategia di tutto rispetto: è passata davanti al pappagallo con aria del tutto indifferente, così che lui ha smesso di preoccuparsi e di considerarla, quindi è tornata indietro di corsa afferrando la banana ed andando a mangiarla bel lontano, al riparo dal becco del pennuto. Sono figli di buona donna come gli umani, ecco perché siamo parenti così stretti. Oggi non mi va proprio di seguire il programma turistico, e rimango nel lodge a riposarmi fino a tardi e ad intrecciare foglie di palma; all’ora di pranzo, mentre non ci credevo più, arrivano anche i miei bagagli, che ormai mi servono a poco. Quindi riesco ad ottenere una canoa e mi inoltro in profondità lungo il corso del fiume e dei suoi affluenti, nella solitudine del paesaggio incontaminato. Vedo guizzare pesci e delfini, osservo un gruppo di pappagalli bianchi sugli alberi morti che emergono dall’acqua, avvisto un caimano, mi perdo nei colori incredibili di un tramonto strepitoso che si riflette sulle acque, e senza accorgermene cala il buio mentre sono ancora lontana dal lodge.
Restando affiancata alle rive del fiume, ed orientandomi con la flebile luce della luna, riesco a tornare indietro nella tarda sera; chissà quando si sarebbero accorti della mia assenza e mi sarebbero venuti a cercare. Arrivo ancora in tempo per ascoltare un pezzo della conversazione che la guida indios del villaggio sta tenendo; racconta di anaconde lunghe dieci metri che ipnotizzano tra le spire le prede facendo perdere loro il senso dell’orientamento (una ha mangiato intero un uomo nel villaggio da cui proviene), di un caimano che ha portato via un pezzo di sedere ad una donna che lavava i panni nel fiume, di spiriti della foresta e di fuochi fatui galleggianti sull’acqua o fluttuanti tra le cime degli alberi, e altre storie di genere crippy-crawly. Mi ordino una capirina, per provare la versione originale del famoso liquore, fatto con la casciasa, che è una sorta di acquavite locale, zucchero di canna e lime (la versione capiroska è invece fatta con la vodka) e vado a gustarmela sull’ amaca dove, complici la capirina, la fine delle vacanze, alcune emozioni suscitatemi dal libro che ho terminato, mi faccio prendere da uno dei miei rarissimi momenti di immotivata tristezza, forse perché non si potrebbe contenere così tanta felicità se il pendolo non oscillasse ogni tanto verso la malinconia.
12° giorno
Karina e Jackie mi accompagnano fino al limite del lodge, e io prendo congedo dalla foresta, percorro un lungo tratto di fiume su di una veloce lancia ben diversa dalla bagnarola di Rambo, quindi un pezzo di strada su di un van, e poi l’ultimo tratto sul traghetto pubblico, il tutto per oltre 4 ore contro la mezz’ora di volo dell’andata. Ho un’ora di tempo per esplorare i mercati generali di Manaus prima di partire per l’ultima avventura di questo viaggio, ma ne vale la pena. Container interi di banane, filetti di pesce lunghi due metri ammucchiati sui banchi, pile di pirana di tutte le dimensioni, pezze di carne esposte tra i mosquitos al pubblico che le tocca e le sceglie, spezie ed erbe di tutti i tipi tratte dagli alberi della foresta amazzonica, amache, magazzini di elettronica e di addobbi natalizi, un’umanità colorata e all’apparenza poco raccomandabile come in ogni grande porto di mare. Gusto un ottimo frullato fatto su un banchetto con diversi frutti tropicali e latte in polvere. Ormai sono immune a tutti i germi del mondo. Sono pronta a scalare il mio albero fino al cielo. La mia guida è un ingegnere di Manaus che ha vissuto in america ed ha una perfetta padronanza dell’ inglese nonché delle tecniche di tree climbing, il mio compagno di avventura è un simpatico ragazzo canadese che è capitano di una nave da turismo che nel periodo di ferma forzata a causa dei ghiacci per tre mesi ogni anno gira il mondo. La tecnica di salita è simile a quella che ho già sperimentato in speleologia, l’imbragatura legata ad un kroll permette di risalire sulla corda spostando l’attrezzo verso l’alto con le mani e facendo forza sulle gambe per alzarsi; barcollo ma non mollo e alla fine arrivo su, con una performance migliore del canadese. Seduta su un ramo a 35 metri di altezza guardo giù ed è come se mi affacciassi più o meno dal dodicesimo piano di un palazzo, ma l’albero è in cima ad un’altura che domina sul punto dell’incontro delle acque e lo spettacolo è straordinario. Un grande rapace nero ha il nido su un albero vicino, un po’ sotto di noi, ed è stupido di vedersi osservato dall’alto. La discesa dura pochi minuti ed è molto divertente, e ahimè presto siamo di ritorno a Manaus, che non ha molto da offrire perché è non so quale festa nazionale ed i negozi sono già tutti chiusi, resta solo un grande centro commerciale, nel quale posso solo constatare come l’omologazione arrivi proprio dovunque, ed anche i prezzi ( che traggono in inganno perché non sono mai indicati per intero ma con una loro frazione ed in piccolo l’indicazione del numero delle rate per cui vanno moltiplicati) non sono per niente convenienti in un Paese dove c’è peraltro grande miseria. Dal centro commerciale mi sposto nella migliore churrascheria di Manaus, Buffalo, che è davvero una piacevole sorpresa; i camerieri negli eleganti costumi da gaucho passano tra i tavoli con gli spiedi su cui sono posti vari pezzi di carni diverse e ne tagliano abilmente dei lembi con i coltelloni secondo il piacere degli avventori, a volontà, sino a quando non se ne può più e c’è anche uno straordinario buffet di pesce, verdure e formaggi di tutti i tipi. Birra e capiroska completano l’ottima cenetta e me ne vado a dormire piena come l’anaconda che ha ingoiato l’indios intero.
13° giorno
Sveglia alle 3 di notte per poter prendere l’aereo delle 6; la sveglia non suona e quando mi alzo devo scapicollarmi per arrivare in tempo all’aeroporto. 4 ore di viaggio per San Paolo, rimetto l’ orologio indietro di due fusi orari, certo che il Brasile è già da solo un continente. A San Paolo non vale la pena per poche ore di spostarmi verso la città e preferisco fare subito il check in, liberarmi dei bagagli sperando di rivederli a Roma, e bivaccare in aeroporto, in un molto deludente duty free (a quanto pare i negozi si trovano prima e non dopo i varchi d’imbarco come in tutti gli altri aeroporti internazionali). Sull’aereo riesco ad accaparrarmi il posto vicino all’uscita di sicurezza così posso stendere i piedi; le hostess sono a caccia dell’ individuo che è obbligato a consumare la cena e la colazione di pesce freddo e che ha abbandonato il suo posto, ma io riesco a non farmi individuare e finalmente mangio un pasto normale con tutti i dolcetti del caso (peraltro senza carne!). Roma mi accoglie all’alba con il freddo invernale e con la pioggia, ma almeno per un po’, nella jungla metropolitana, manterrò nel cuore il caldo dell’avventura amazzonica.
Che racconto fantastico! L’ho divorato tutto d’un fiato ed è stato come leggere un’avventura di Cussler *_* Sei davvero impavida e la foto in cui sembrate tre guerriglieri è bellissima (hahahhah anche se la pattada sarda non avrebbe retto il confronto con il machete!).
Una curiosità: in quasi tutto il testo parli al singolare ma eri davvero sola? O_o
Ti rinnovo il benvenuto su WP Valeria, ho visto che hai viaggiato tantissimo e sarà un grande piacere leggerti!
A presto 😉
Daniela
Grazie mille, Daniela! E’stato il mio viaggio piu’ emozionante in assoluto, vorrei tanto tornare in Amazzonia, nella parte peruviana, dove l’interesse e’ anche antropologico perchè ci sono le ultime tribu non civilizzate che non hanno contatti col mondo esterno. Solo che nel viaggio che ho raccontato ero con mio marito quando ancora facevamo la bella vita, con il mostro treenne la vedo dura!